Corriere della Sera - La Lettura
Mostri, incubi e automi: la Corea è buia
Toccano i nodi della questione femminile, e non solo
C’è forse un antefatto di Coniglio maledetto che, se fosse scritto, potrebbe a buon diritto entrare a far parte dei racconti di Bora Chung. La scrittrice sudcoreana ha raccontato di essere cresciuta nella clinica odontoiatrica dei genitori e di aver avuto il modello di un teschio umano nel soggiorno di casa. Anche volendo sfuggire alla tentazione di tracciare facili traiettorie causaeffetto tra l’infanzia di un’autrice e un esito letterario in età adulta, la suggestione resta.
Coniglio maledetto, nel 2022 finalista all’International Booker Prize, tradotto dal coreano da Andrea De Benedittis, mostra la forsennata immaginazione di una scrittrice che ha studiato negli Usa e s’è nutrita di Bruno Schulz e delle sue «botteghe color cannella», di Andrej Platonov e della fantascienza filosofica di Stanisław Lem e dei fratelli Strugatskij. Molte delle dieci storie del libro non hanno dettagli che tradiscano l’origine geografica e culturale di Chung. Siamo spesso in territori di fiaba, in un tempo che non è della storia: in La tagliola una sorta di maledizione si propaga da una volpe che, catturata, continua a sanguinare oro, producendo ricchezza prima e un incubo di disperazione poi; Cicatrici rimanda all’eterno paradigma del mostro che chiede giovani vittime sacrificali finché un ragazzo, tra dolorose peripezie, spezza la spirale di desolazione (ma dell’uccello mostruoso di cui alla fine provoca la morte pensa in termini di «bellezza», per quanto «inquietante»); Il comandante del vento e della sabbia, pure, ha il passo di un apologo mitologico. Addio, amore mio invece entra, con esiti prevedibili, nel mondo di androidi sofisticati, capaci di ribellarsi alla propria obsolescenza programmata, lasciando l’io narrante a considerare che «non sono più automi dall’aspetto umano. Sono esseri diversi dagli uomini, esseri che io non arriverò mai a capire».
Più interessanti i racconti che restituiscono uno specifico sudcoreano. Coniglio maledetto, che dà il titolo alla raccolta, ha a che fare con la vendetta e la maledizione, suggerendo che le pratiche del turbocapitalismo nel Paese non meritino alcuna indulgenza mentre Casa, dolce casa! tocca, con un guizzo finale da storia di fantasmi, l’assillo della questione della casa (in fondo era il cuore di un film di successo come Parasite). L’apparire di una disgustosa creatura nella vita della protagonista di Testa, ma anche l’odissea di quella di Mestruo, che si ritrova misteriosamente incinta in una
Wilhelmina, secondo la quale «gli uomini sono troppo impegnati a prendere le loro decisioni importanti per notare quanto le donne si prendano cura di tutto il resto».
È a questo punto che iniziano i guai perché, a dispetto dell’esperienza e delle referenze che la signora Skogh può vantare, collocare una donna al vertice dell’hotel emblema della Corona, simbolo della città e della nazione, fa storcere il naso a molti e scatena una violenta reazione tra il personale maschile della struttura, parte del quale arriva a inscenare una protesta clamorosa, incrociando le braccia. Wilhelmina non si fa intimidire e sostituisce gli «ammutinati» con ragazze ambiziose e desiderose di smarcarsi dai ruoli secondari sin lì ricoperti per costruirsi, partendo proprio dal lavoro, un’esistenza che vada oltre gli steccati sociali del tempo, i quali le vorrebbero solo in qualità di affidabili «angeli del focolare» oltre che di mogli sottomesse e madri premurose. Il Grand Hôtel diventa così un modello di eccellenza tutto al femminile, riuscendo a superare anche le acque agitate di un decennio di crisi economica e rivendicazioni sociali, fino ad accogliere nel 1909 — ampliato con una nuovissima dependance dotata di giardino d’inverno — la nona cerimonia del Nobel,
RUTH KVARNSTRÖM-JONES Le formidabili donne del Grand Hôtel Traduzione di Francesca Toticchi NORD Pagine 480, e 19 quella che vedrà imporsi nella letteratura la prima scrittrice svedese a vincere la statuetta: Selma Lagerlöf.
Su questa trama, ispirata a una vicenda realmente accaduta, Ruth Kvarnström-Jones (1962) imbastisce un efficace ordito di storie minori — quelle di Ottilia, Marta, Katerina, Margareta, Turen… — a sua volta intrecciato alla grande storia, con le vicende della frattura tra le corone di Svezia e Norvegia che fanno da sfondo ai temi della trasformazione economica e sociale dell’Europa di primo Novecento, fra battaglie sindacali per la riduzione dell’orario di lavoro e manifestazioni a favore del suffragio femminile e dei diritti delle donne.
Inglese di nascita ma da oltre trent’anni residente in Svezia, l’autrice in Le formidabili donne del Grand Hôtel si dimostra capace di maneggiare con abilità fiction e storia e di far vibrare le corde del coinvolgimento e dell’empatia per le sue «formidabili» protagoniste, ricostruendo con molta cura anche ambienti e luoghi della Stoccolma di inizio Novecento. Una città alle prese con grandi trasformazioni urbanistiche, attraversata da violenti scontri sociali figli della montante industrializzazione e ferita dalle piaghe dell’indigenza e della malattia (il tifo anzitutto). Una città afflitta — come l’intera Svezia e gran parte dell’Europa del tempo — da profonstessa di solchi fra i sessi, con le donne ancora prive del diritto di voto (in Svezia arriverà nel 1921) e senza possibilità concrete di respingere mariti e compagni, invocando il divorzio. Le istanze femministe scorrono sottotraccia in molte pagine del romanzo ma senza appesantirne la lettura, in forza del buon equilibrio fra le parti raggiunto dalla scrittrice, che sa dosare i diversi ingredienti e imbastire storie plausibili e avvincenti dentro la storia realmente accaduta. Il romanzo risulta oltretutto straordinariamente attuale se è vero che ancora oggi pregiudizi e diritti negati alle donne, dentro e fuori dal mondo del lavoro, costituiscono il pane quotidiano di molta cronaca, benché sempre meno in Svezia e nei Paesi scandinavi, divenuti nel frattempo modelli di riferimento per le battaglie di parità.
Come non schierarsi, dunque, con l’indomita Wilhelmina mentre affronta e vince, sola e granitica, un consiglio d’amministrazione quasi sempre pregiudizialmente ostile, o con le sofferte battaglie di Margareta per ottenere il divorzio dal marito violento o, ancora, con la determinata ostinazione di Ottilia e delle sue sorelle nel cercare la propria strada professionale lottando ad armi pari con gli uomini… L’identificazione è immediata e alla fine non resta che brindare, come chiosa l’autrice nei ringraziamenti, «alle formidabili donne del Grand Hôtel».