I «venditori di briciole» e il bisogno di persone buone
Avevano ragione gli indiani a chiamarci visi pallidi. In giro non diamo tanto nell'occhio, un po' di fondo tinta le donne, un filo di ombra di barba gli uomini, ma l'uscita dei bambini dalle scuole elementari è una sfilata di fantasmini pallidi, oggigiorno più che pallidi perché passati ripetutamente al candeggio dell'aria cattiva.
Per fortuna la smunta sfilata è interrotta continuamente da colorati scolaretti filippini, cinesi, indiani, egiziani ecc, a proposito c'è qualche bambino milanese che sappia come si dice almeno una parola, almeno grazie, in filippino, cinese, indiano, egiziano ecc? (veramente non lo sanno dire neppure in italiano). Quante maestre l'hanno almeno una volta fatta scrivere alla lavagna? Ogni domanda mi apre un'altra domanda e non riesco a fermarmi più, si può dire ancora «scrivere alla lavagna» anche se le lavagne non sono più fatte di lavagna? anche se in molte scuole le hanno sostituite con quelle magnetiche? E dove saranno finite tutte quelle belle pietre nere con i gessetti bianchi? e i cancellini arrotolati come un gatto? E quanti bambini sanno dire grazie in milanese? Tutti, ci credo, si dice uguale. E parlare? Parlare si dice parlà. E tacere? Tasè.
Però c'è una parola che forse solo i veri milanesi conoscono, la parola « freguia», che vuol dire briciola, infatti il fregujatt era il venditore di briciole. Venditore di briciole? Sì, di briciole di panettone per esempio. Però nella Confetteria Baj di piazza Duomo (dove la titolare suonava il pianoforte per le sue clienti del pomeriggio) che era stata premiata come migliore produttrice ( per forza, dicevano, dato che il panettone Baj veniva sfornato sotto lo sguardo della Madonnina) le briciole le regalavano ai poveri e il fregujatt restava disoccupato (da «Milano fine Ottocento» di Raffaele Calzini).
Passiamo a un'altra parola, era malatissima, non la si sentiva né vedeva più circolare da tempo, l'ha fatta risorgere, incredibile, uno spot pubblicitario appunto di panettoni che chiude sempre con l'imperativo: «fate i buoni!». Chi si rivede, finalmente, seppure in uno spot, la bella e tramontata parola «buono». (Scriveva Brecht «nessuno può essere buono a lungo se non c'è richiesta di bontà»). Anche un grande magazzino in questi giorni la sta usando: «A Natale facciamo i buoni» ma qui è solo per alludere al sostantivo buoni-sconto e intanto sotto lo slogan uno pseudo Babbo Natale s'abbraccia una bbòna bonazza. Meglio allora chiudere con il pallido principe Myskin dell'Idiota di Dostoevskij: «Ho bisogno di persone buone».