Augustin Dumay «Più che la tecnica serve il cuore»
Il grande violinista questa sera a Bergamo
«Gli alberi non dovrebbero nascondere le foreste». Estrapolata dal contesto la frase suona criptica, ma nella riflessione che Augustin Dumay sviluppa sul senso della musica risulta chiara e condivisibile. Il grande violinista parigino è ospite del Festival Pianistico Internazionale, oggi al teatro Donizetti di Bergamo e domani al Grande di Brescia: guiderà la Kansai Philharmonic Orchestra in due Danze ungheresi e nella quarta sinfonia di Brahms, esibendosi nel doppio ruolo di direttore e solista nel Poème di Chausson e nella Tzigane di Ravel. Nato 66 anni fa in una famiglia di musicisti, a 10 era già in Conservatorio: «Mi innamorai del violino assistendo a un concerto del grande Natan Milstein e mi capitò come maestro proprio un suo allievo. Poi si trasferì per lavoro e il mio nuovo insegnante aveva studiato con Grumiaux: mi vennero così trasmessi gli insegnamenti e i segreti di due grandi scuole violinistiche, la russa e la francobelga». La svolta fu casuale ma definitiva: «La carriera era già ben avviata, non a caso stavo registrando per la Emi le Sonate di Brahms. Quando andai dai tecnici per ascoltare il risultato — erano nella sala accanto — mi accorsi che c’era Karajan. Era venuto per controllare la post-produzione di un’opera che stava incidendo e si era fermato ad ascoltarmi; si presentò e mi chiese di suonare con lui e i Berliner Philharmoniker il weekend successivo a Parigi. Per gli organizzatori fu un problema: dovettero rifare locandine, libretti di sala e non solo, ma Karajan era Karajan e a lui non si poteva dir di no».
Fu la consacrazione di Du- may, che oggi e si prodiga per trasmettere alle nuove generazioni quanto ha ricevuto e rielaborato: «Da un po’ di anni sembra che l’urgenza più impellente sia la perfezione tecnica, ma l’esasperato virtuosismo fa spesso perdere il cuore e il bello della musica. Dico sempre: la perfezione tecnica è come un albero, la foresta la musica; non si può guardare solo l’albero e l’albero, dal canto suo, non deve accentrare su di sé l’attenzione ma sulla foresta». Dal vegetale al teologico, dalla tecnica all’uomo, il concetto si approfondisce ma non cambia: «Un musicista non può suonare per compiacere quel signore in terza fila o quella signora nel secondo palco, ma per servire la musica; è la stessa cosa del prete, che non dice messa per gli astanti ma innanzitutto per Dio».