Lupo sette e la Brianza nera Romanzo di un carabiniere
Dai blitz al comando: «In caserma la gente cerca anche consigli»
Nell’estate del 1972 era solo un ragazzo di vent’anni, Mario Carbone. E a Napoli, la sua città, usciva ogni tanto con una sedicenne di Portici. Ma notò presto un tizio che viveva nella casa di lei, un tale «che aveva un non so che di diabolico, incuteva timore e spavento». Riuscì a farsi raccontare qualcosa, lei sapeva solo che si chiamava Luciano Luberti e che era con loro da un paio d’anni. Ma a quel ragazzino, il nome bastò. Indagò, scoprì chi era: il boia di Albenga, ufficiale della Wermacht nella Seconda guerra mondiale, condannato nel 1946 dalla Corte d’Assise straordinaria di Savona per l’uccisione di oltre 200 tra partigiani e civili, latitante dal 1970 dopo aver ammazzato la sua amante.
Il 10 luglio Mario Carbone telefonò in questura: «Ho notizie utili per catturare Luciano Luberti » . Al capo della Squadra Mobile spiegò tutto. Presero Luberti dopo un conflitto a fuoco, grazie a quel ragazzino. Non era ancora nell’Arma, Mario Carbone, quando compì la sua «prima operazione». Si arruolò l’anno dopo, destinato a Monza, passò due anni al nucleo radiomobile, 11 nel nucleo investigativo, poi 25 anni al comando della stazione di Bernareggio, fino al congedo alla fine del 2012, a sessant’anni.
Una vita nell’Arma, ora raccontata in un libro che verrà presentato dopodomani, giovedì, alle 21 nella Sala consiliare in Via Prinetti, nel vecchio municipio di Bernareggio. «Lupo Sette», il titolo, è il nome in codice del luogotenente Carbone, quand’era in prima linea nella Brianza ricca, spaventata e nera dei sequestri di persona. Più di venti i rapimenti su cui ha indagato, una quindicina i blitz, spesso con conflitti a fuoco, per liberare i sequestrati, come nel 1977 a Milano, per farsi consegnare Maria Rosa Rumi, rapita dalla Banda Vallanzasca. Carbone e i suoi avvisarono i banditi che erano circondati, quelli spararono, loro risposero con una raffica di M12. Iniziarono le trattative, durarono ore, infine la resa.
«Penso però spesso a chi non siamo riusciti a salvare — racconta —. Penso ad Adelmo Fossati, rapito, ucciso senza neppure poter mai tenere tra le braccia la sua bimba, nata proprio mentre lui era nelle mani dei rapitori. Riuscimmo però ad arrestare il capobanda e un complice».
A volte i parenti in crisi perdevano il controllo: «La cognata di una rapita ci accusò una notte di non fare nulla, risposi che non vedevo mia moglie Rosanna dal mattino presto, che aspettavamo un bimbo e che lei era sola a letto perché aveva una gravidanza difficile». Una donna sempre vicina e riservata, Rosanna. A lei, ai due figli e ai genitori, Carbone ha dedicato il libro. E quando nel 1987 decise di lasciare il nucleo investigativo, per diventare comandante di stazione in un paese della Brianza, fu la moglie Rosanna a dirgli che quella caserma di Bernareggio che avevano visitato, a ben pensarci, «aveva un bel giardino dove i bambini avrebbero potuto giocare serenamente».
Prese comando il primo giorno del febbraio 1988 «con il compito di esser un punto di riferimento, il simbolo della presenza dello Stato — racconta —. La gente non va in caserma soltanto per le denunce, ci va anche per chieder consiglio o per segnalare qualcosa, se ti rispetta». E a Bernareggio il luogotenente Carbone si è conquistato davvero il rispetto della comunità: tanto che nel 2013 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria.