Pane, triglie e ‘nzalatella
Antonio Florio e i suoi Turchini impaginano in Conservatorio un programma di arie del Barocco napoletano intorno al cibo
Un presepe napoletano dove il dio è il cibo e le statuine sono i personaggi della canzone, della commedia musicale e dell’opera buffa. Il programma che Antonio Florio e i suoi Turchini imbandiscono domani al Quartetto è succulento, speziato, in alcune portate anche piccante per le allusioni sessuali che il fantasticare attorno al cibo scatena. Il soprano Valentina Varriale e il tenore Giuseppe De Vittorio intonano un’antologia di arie di quell’età aurea della Napoli musicale che furono i decenni a cavaliere di Sei e Settecento, quando i nomi e le note di Provenzale, Vinci, De Majo, Leo, Grillo e Paisiello echeggiavano in tutta Europa. «Frutti e pesci, pescatrici e tavernari» è il titolo dato da Florio «a un programma nato nel seno della commedia musicale partenopea. Napoli viveva due vite teatrali completamente diverse: l’opera seria, popolata da cantanti rinomati, castrati e primedonne, e l’opera buffa: qui i cantanti dovevano essere soprattutto attori, le trame erano fantasiose ma lo stile realici stico, la lingua era spesso quella parlata dal popolo». Note che pescano da una quotidianità pittoresca per catturare le vo- di una variopinta umanità e le grida dei venditori al mercato; note che inneggiando al cibo esorcizzano la paura della fame. «Il cibo è una presenza costante nei brani che antologizziamo», dettaglia Florio, fondatore nel 1987 dell’ensemble e da allora sua guida tra i meandri della storia musicale napoletana: un repertorio che proprio i Turchini hanno ampiamente scoperto, riscoperto e valorizzato in tutta Europa «Partiamo da una villanella anonima del ‘500, “Boccuccia de ‘no pierzeco”, dove un oggetto di desiderio qual è il labbro viene paragonato a una pesca. Se Provenzale, nell’aria “Me sento ‘na cosa” crea l’onomatopea di un rigurgito, spesso il cibo viene usato come metafora sessuale: nell’aria di Meneca “L’uommo è comm’a ‘nu piezzo de pane” da “Li zite ‘ngalera” l’uomo viene paragonato al pane: da fresco è appetitoso, ma stantìo rischia di strozzare; parla da sola l’allusione all’insalatina che ne “Lo cecato fauzo” di Vinci riecheggia nell’aria “Che bella ‘nzalatella”. Nel “Pulcinella vendicato”, con l’aria “Tengo triglie rossolelle”, Paisiello fa elencare a Carmosina tutti i tipi di pesci che si potevano pescare nel Golfo di Napoli». E il parallelo pesce fresco-freschezza dell’amore viene statuito da De Majo nell’aria «Quanno lo pesce è bivo» da «Lo finto laccheo».