La madre di Lidia «Chi sa parli»
In cella l’accusato ostenta serenità: fiducia nella giustizia
Muto nel doppio interrogatorio di ieri. Ma all’avvocato, Stefano Binda ( foto), arrestato venerdì con l’accusa di aver stuprato e ucciso Lidia Macchi nel gennaio del 1987, ha ripetuto che non c’entra con l’accusa e si è detto fiducioso nella giustizia.
Tace l’arrestato e tacciono i non indagati. Ma se Stefano Binda, muto nel doppio interrogatorio di ieri (prima con il gip Anna Giorgetti, poi con il sostituto procuratore generale Carmen Manfredda), lunedì aveva ripetuto all’avvocato che «io non ho fatto niente, ho fiducia nella giustizia», l’intera cerchia di Comunione e liberazione, cui apparteneva Lidia Macchi e appartiene il suo presunto assassino, non si muove dalla posizione. Quasi che siano tutti quanti d’accordo o, addirittura, stiano obbedendo a una specie di ordine di scuderia. Non uno che parli. Compreso Marco Pippione, influente figura locale di Cl, punto di riferimento per la comunità e fra i primi chiamati da Binda appena è finito nei guai; compreso don Giuseppe Sotgiu, amico di Binda fin dall’infanzia e così legato da coprirgli l’alibi; e compresa Patrizia Bianchi (già innamorata dell’arrestato e vicinissima a Lidia), figura decisiva per la riapertura dell’inchiesta con le sue rivelazioni.
Con oggi, sono sei giorni che l’uomo catturato dalla squadra Mobile di Varese è in cella. Fin da subito, in prigione, Binda ha mantenuto tranquillità e un’apparente serenità. Anche negli interrogatori è stato calmo, controllato, con l’obiettivo di comunicare il in generale, in tutta la provincia di Varese, la «cortina» di Comunione e liberazione si starebbe facendo sempre più insistente?
C’è un particolare, l’ennesimo, riaffiorato nella dolorosa memoria della mamma di Lidia, Paola, e raccolto dal quotidiano La Prealpina. Nelle settimane antecedenti la morte, la figlia le aveva detto che c’era un suo amico che girava con un coltello. Forse, nella cerchia, qualcuno può ricordarsi, confermando o smentendo. La famiglia è fermamente convinta che la verità sia ancora parziale. Altrimenti l’avvocato Daniele Pizzi non avrebbe invitato «chi sa» a «farsi avanti». Dall’orrore sono passati ventinove anni.