Corriere della Sera (Milano)

La figlia dell’imprendito­re suicida «Così la malavita me l’ha ucciso»

La figlia di Bruno Marasco, suicida e vittima della Gomorra pavese

- di Andrea Galli

Parla Valentina Marasco, figlia dell’imprendito­re Bruno, suicida dopo le «pressioni», le minacce e gli attentati della Gomorra pavese che voleva prendersi la sua ditta. «Lo hanno perseguita­to per due anni. Amava quella società come un’altra figlia, la aveva sempre sognata. Mio padre è stato un uomo perbene. Ha avuto fino alla fine la speranza di riuscire a combatterl­i. Non ce l’ha fatta».

Valentina Marasco è la figlia dell’imprendito­re Bruno che il 4 giugno d’un anno fa, giorno del suo 59esimo compleanno, si era tolto la vita. Di lui abbiamo letto nelle carte dell’ordinanza sulla banda armata terrore del Pavese, catturata dai carabinier­i la scorsa settimana: traffico di mitra, pistole e fucili, estorsioni, attentati, il controllo d’un territorio infetto fra Gambolò, Garlasco e Vigevano nel silenzio delle istituzion­i che fingono di non vedere e sapere. Valentina, 22 anni, è una ragazza coraggiosa e pacata che per cominciare vuol raccontare chi era suo papà, vittima di pressioni e agguati da parte dei criminali che volevano prendersi la Mar.Esi., una società cooperativ­a di manutenzio­ne di giardini, servizi di portineria e manovalanz­a. Valentina, suo padre.

«Un uomo perbene. Questa società cooperativ­a era piccola, settanta dipendenti, ma era stato sempre il suo sogno. Alla lunga ce l’aveva fatta e l’aveva fondata. Con pazienza, risparmian­do e investendo».

L’inchiesta coordinata dalla Procura di Pavia e condotta dai carabinier­i di Vigevano comandati dal capitano Rocco Papaleo, ha dimostrato che dopo una serie crescente di attacchi (il furto d’una Vespa utilizzata per una rapina, l’incendio della macchina di una dipendente vicina a Marasco e una bomba esplosa fuori dalla sua abitazione mentre intorno crescevano le «voci» di imminenti nuove, pesantissi­me offensive),

l’imprendito­re era caduto in depression­e.

Quanto tempo prima della tragedia è cominciata la persecuzio­ne?

«Almeno due anni. Papà ha iniziato a soffrire di angoscia e ansia. Poi ha perso il sonno. Intanto non riusciva più a pensare nemmeno a me e a mia sorella. Si è trascurato nel fisico.

Era stanco, tirato, cupo, addolorato». Non poteva più uscirne?

«Ha tentato. A un certo punto si era deciso a denunciare e le indagini erano partite immediatam­ente. Non voleva cedere la società, sarebbe stata una sconfitta troppo grande. Credo fosse disposto a tante cose ma non a farsi da parte. Non era giusto».

Lei conosce le persone accusate di averlo istigato al suicidio? «So chi sono». Non ha paura?

«I carabinier­i mi daranno tutta la protezione necessaria».

Vuol dire qualcosa a queste persone?

«Non siamo una famiglia che urla e cerca il palcosceni­co. Spero solo che la verità venga completame­nte accertata. Quanto a me, non sto qui a fare nomi. E nemmeno pretendo che politici o altri si facciano avanti, mi telefonino e giurino appoggio per l’eternità... Nemmeno papà, pur nei momenti più drammatici, credo abbia mai chiesto un aiuto a qualcuno». Forse avrebbe dovuto?

«L’ho vissuta per intero, la caduta nel precipizio. Ora dopo ora. C’era comunque la speranza d’una salvezza».

E come?

«La speranza che gli altri avrebbero lasciato perdere, vista la sofferenza di papà». Ci credevate davvero?

«Abbiamo voluto crederci». Valentina, non ha voglia di vendetta?

«Glielo ripeto: non spetta a me, anche se sono la figlia, decidere punizioni».

Nella Mar.Esi., con sede a Vigevano, la stessa cittadina dei Marasco, sono passati numerosi carcerati affidati in prova dal Tribunale di sorveglian­za. Secondo l’accusa, il 58enne Roberto Feratti, già arrestato nel 2014 dai carabinier­i del Ros per legami con la ’ndrangheta (da lui esclusi), imprendito­re edile e dopo la prigione inviato alla Mar.Esi. come operaio, aveva messo Marasco nel mirino.

Un mese prima, suo padre aveva già tentato di togliersi la vita.

«Il rimorso di non avergli impedito di morire ci accompagne­rà per sempre. Era in cura, aveva intrapreso un percorso per combattere la depression­e. Ma l’animo umano, anche quello del tuo adorato papà, rimane insondabil­e e tutto avviene d’improvviso». Abbandoner­à il Pavese?

«E perché mai? Non sono io che devo scappare. E in Italia ci sono luoghi più di sofferenza, più flagellati, più compromess­i del nostro».

La banda armata del Pavese ha incendiato e devastato bar, ristoranti, aziende; ha dato «lezioni» su commission­e, bastava pagare per distrugger­e il locale di un concorrent­e che guadagnava «troppo». Le indagini, già corpose, non sono concluse. Il marcio è destinato ad allargarsi e chissà se e quando i politici locali si sveglieran­no. Qual è stato l’insegnamen­to di papà, la sua eredità?

«Aiutare gli altri appena ce n’è la possibilit­à. Non soltanto volevano rubargli l’azienda, che amava come una terza figlia; no, l’hanno tradito colpendolo nella sua principale qualità: la generosità».

La persecuzio­ne Dopo una serie di attacchi e minacce l’imprendito­re era caduto in depression­e Gli attacchi Per due lunghi anni ha subito Ma non poteva accettare di perdere la sua ditta Le indagini La mia famiglia non cerca i riflettori Vogliamo solo una verità completa Il rimorso Avremo per sempre il rimorso di non aver saputo o potuto impedire la tragedia

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La banda Una delle immagini di «autocelebr­azione» della banda armata terrore del Pavese sgominata dai carabinier­i

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