«Qui è una rinascita»
Ospiti sul palco all’Arco della Pace
Nel suo film, la reporter Cosentino racconta una famiglia scappata dalla Siria: «Resistenza è anche questo». I protagonisti oggi all’Arco della Pace: «Qui noi siamo stati liberati».
«Liberazione e Resistenza sono anche questo: una famiglia siriana fuggita dagli orrori del regime di Bashar al Assad che trova in Italia il modo di ricominciare a vivere». A dirlo è la reporter Marta Cosentino, che vive tra Milano e Beirut: stasera all’Arco della pace, nell’ambito della manifestazione «Partigiani in ogni quartiere», davanti a centinaia di persone presenterà il suo documentario «Portami via». E sul palco con lei ci saranno i protagonisti, l’intera famiglia Maccawi: papà Jamal e mamma Wejdan con i figli Talaat, Halaa, Khaled e Talal, e il nipotino Tarek.
«Ho raccontato il loro viaggio dalla Siria, dove Jamal è stato incarcerato più volte tra atroci torture e le bombe deflagravano sotto casa, fino ai campi profughi del Libano. Sono arrivati in Italia il 3 maggio scorso grazie a un corridoio umanitario che li ha salvati», dice Marta. Il suo lavoro ricorda quello del docufilm «Io sto con la sposa». «Ringraziamo questi registi che vengono sul campo, fanno conoscere da vicino le nostre storie e cercano di creare solidarietà», dice Jamal, il capofamiglia. Gabriele Del Grande, tra i registi del docufilm, quando è stato arrestato in Turchia — il 9 aprile — lavorava al libro «Un partigiano mi disse», sulla guerra civile siriana, ed è stato liberato solo ieri. «Dobbiamo continuare a fare un lavoro che è anche di frontiera, andando nei luoghi a parlare con la gente e cercando di non avere paura», aggiunge la regista, da anni anche autrice di Gad Lerner.
Racconta Jamal: «Non ho mai partecipato a manifestazioni, non ho impugnato armi, non ho ucciso, non ho fatto nulla. Per 115 giorni sono stato sbattuto nelle carceri dei servizi militari. È questione di un attimo e perdi la libertà e i diritti, vieni messo in stanze di 5 metri per 7, sottoterra, con dentro 130 persone, senza luce e con una forte puzza. Era proibito parlare, proibito muovere un muscolo. E tutto questo per cosa? Perché tutta questa umiliazione?». Ci sono ricordi orribili, ma anche quelli idealizzati di tempi che non tornano più: «Io e i miei amici vivevamo nello stesso vicolo, eravamo compagni di banco. Non so dove sono finiti», si immalinconisce Kahled, che ha 18 anni e va a scuola, come il fratello Talal, di 14. «A volte vorrei tornare bambino», aggiunge. Ora che hanno l’asilo politico, all’arco della Pace, vogliono dire una cosa: «Qui, noi siamo stati liberati».