Il ritorno dei Fleet Foxes Folk d’ispirazione letteraria che esplora i sentimenti
Al Fabrique
Sono tornati dopo sei anni di silenzio, i Fleet Foxes: a giugno la band di Seattle ha pubblicato il terzo album «CrackUp», il primo dopo la rottura con il batterista Josh Tillman, uscito dal gruppo per dedicarsi alla carriera solista come Father John Misty. Domani potremo sentire il nuovo disco dal vivo al Fabrique (via Fantoli 9, ore 21, € 30). Parla della fine di alcuni rapporti», spiega Robin Pecknold, cantante, polistrumentista e mente della band assieme a Skye Skjelset. «Il titolo è preso da uno scritto di Francis Scott Fitzgerald del 1936: è un’espressione che evoca il collasso nervoso e rispecchia un album che volevo suonasse come rotto e riassemblato, ma riassemblato in modo imperfetto».
E prosegue: «Siamo stati fermi per parecchio, non sapevo più quale fosse il mio ruolo nel mondo. Mi serviva un obiettivo, così sono tornato all’università, mi sono iscritto alla Columbia University di New York, mi sono rimesso a studiare musica classica e composizione. Anche se per le nuove canzoni non ho abbracciato un approccio troppo accademico: per me la musica ha a che fare più con i sentimenti che con il pensiero».
Alle spalle una nomination ai Grammy per l’album «Helplessness Blues» del 2012, i Fleet Foxes sono una delle band più acclamate degli ultimi dieci anni, apprezzati per il loro folk dagli arrangiamenti sofisticati, ricco di tessiture vocali. «In “Crack-Up” c’è anche un po’ del mio amore per il poeta Walt Whitman e per i dipinti di Francisco Goya», dice il 31enne Pecknold. Che sentendo nominare gruppi come Lumineers e Mumford & Sons, che hanno cavalcato l’ondata di rinascita del folk degli anni scorsi, ma più in chiave pop, si inibisce un attimo, per poi sottolineare che «con quelle band ci sono somiglianze, ma non potrei mai fare il loro stesso tipo di musica».