Viaggio al termine del giorno
Arturo Cirillo porta in scena il dramma di O’Neill su una famiglia in crisi
La «Lunga giornata verso la notte» di una famiglia distrutta da angosce, alcool e droga, un gorgo di solitudine e dipendenze dove l’unica vera salvezza è la fuga. Dopo «Zoo di vetro» di Tennessee Williams e «Chi ha paura di Virginia Woolf?» di Edward Albee, Arturo Cirillo conclude la sua trilogia americana con il capolavoro di Eugene O’ Neill.
Tutto si svolge in Connecticut nella casa di villeggiatura dei Tyrone nell’agosto 1912. È qui dove tra ansie e deliri si svolge il dramma. «Un testo fortemente autobiografico in cui l’autore fa i conti con la propria vita e con il teatro», afferma il regista: «una storia piena di menzogne e sortilegi in cui il palcoscenico è il luogo della liberazione, ma anche della condanna a una vita non vera».
Il capofamiglia è James (lo stesso Cirillo), un attore ricco, avaro e frustrato che ha passato gli anni recitando un unico ruolo in un dramma mediocre; la passione per il teatro ha contagiato anche sua moglie Mary (l’intensa Milvia Marigliano) che si è innamorata del marito durante una rappresentazione mattutina, mentre il primo figlio James Jr (Rosario Lisma), cinico e disilluso, vivacchia con il teatro grazie alla raccomandazione di suo padre. Infine c’è Edmund (Riccardo Buffonini), il secondogenito, «l’alter ego dell’autore», sottolinea Ciril- lo: «un ragazzo che, come O’Neill, scrive e legge poesie, ha provato a lavorare come giornalista e soffre di quella terribile tosse che si chiama tubercolosi».
Una famiglia sull’orlo del precipizio, insomma, che cerca di salvarsi rifugiandosi nell’immaginario; quattro «attori» che vivono una vita illusoria: James è alcolizzato e sua moglie Mary si fa di morfina. Un dramma sulle dipendenze scritto nel 1912 ma sempre attuale. «In scena non sentirete la parola tubercolosi o morfina perché oggi potrebbe essere qualsiasi altra malattia o sostanza, ma la questione non cambia».
Il sortilegio della droga e dell’alcool dunque, ma anche del teatro, è un tema che Cirillo sottolinea: «Qui i personaggi entrano ed escono dalle solitudini come dai loro camerini e quella nebbia, simbolo dell’angoscia che li aspetta a fine giornata, sul palco è prodotta dalla macchina del fumo, un meccanismo che rende evidente l’artificialità delle loro vite».
Il finale non può che essere buio e tragico come la notte dei Tyrone. L’unico a salvarsi è il figlio minore, Edmund, che dopo aver visto madre, padre e fratello arrivare al capolinea delle loro infelicità, decide di allontanarsi per sempre dalla famiglia.