I DOVERI NON VANNO IN VACANZA
La vicenda dei diciannovenni del Tenca, che sarebbero stati costretti a rinunciare al diritto di voto del 4 marzo per una «gita scolastica» già programmata a settembre 2017 se non fosse intervenuta la stampa che ha spinto le autorità scolastiche a risolvere il problema, è certamente piccola. Ma come tutte le cose piccole può insegnare anche cose grandi. Le mettiamo in ordine di importanza. La prima. Sono 50 anni che si tenta, e non per nominalismo, di chiamare «viaggi di istruzione» le «gite scolastiche». In effetti, i primi servono per capire meglio temi e problemi che si stanno trattando in classe. E nondimeno per comprendere la maturità del gruppo di studenti quando si lavora insieme, fuori dalle aule scolastiche, in un’impresa, in un museo, in un’iniziativa culturale promossa in un’altra città eccetera. Dovrebbero quindi essere strumenti molto flessibili e periodici. Soprattutto in una scuola che intenda praticare sul serio l’alternanza formativa e quella scuola-lavoro. Niente: da 50 anni il messaggio non passa. E i «viaggi di istruzione» sono di nome e di fatto «gite». Per di più «scolastiche». Come se la scuola fosse un’agenzia di viaggi. Programmate non sulle esigenze quotidiane della didattica, ma su tempi rigidi come per la sostituzione delle ruote invernali delle auto. La seconda. Le scuole si lamentano dell’affollamento di impegni extracurricolari che ci sarebbero a primavera.
«Tra open day, test universitari, referendum, elezioni e ballottaggi, il calendario delle gite diventa un terreno minato», afferma il dirigente del Virgilio. Bene. Acquisito che i «viaggi di istruzione» non dovrebbero essere «gite scolastiche», ci sarebbe un modo sicuro per sminare ulteriormente il campo primaverile, ovvero chiedere quanto si impedì addirittura di discutere tra il 1999 e il 2001: far concludere cioè la secondaria a 18, non a 19 anni. A questo punto, referendum, elezioni e ballottaggi disturberebbero molto meno il calendario scolastico. La terza cosa è la più importante. Lasciamo stare la retorica della Costituzione più bella del mondo. Magari anche scolpita nella pietra, come le tavole di Mosè. Bisogna però anzitutto ribadire che la Costituzione va conosciuta. Nelle sue cause efficienti, formali, materiali e finali. Ben fece, perciò, l’onorevole Moro, nel 1958, ad introdurre nella scuola l’insegnamento obbligatorio dell’educazione civica. E bene hanno fatto i governi successivi a potenziarne la presenza, pur cambiandole il nome, nei 13 anni di scuola pre universitaria. Va tuttavia aggiunto che la conoscenza è inutile se non si trasforma in giudizio etico e soprattutto in testimonianza. È allora paradossale che un’istituzione dello Stato avesse previsto una gita all’estero di diciannovenni che non potevano votare senza trasformare, al rientro delle vacanze, il divieto in un’occasione «civica» per proporne anche la modifica. Votare infatti è un dovere, oltre che un diritto. Ed è sulle piccole cose che diventano credibili i grandi principi costituzionali.