Tornando a casa
Boreali Siri Jacobsen esplora il sentimento dell’appartenenza nel libro «L’isola»
Per la giovane protagonista di «Isola» (Iperborea), tornare in quella che è sempre stata «casa» per la famiglia, ma non lo è mai stata per lei, è l’inizio di un’esplorazione poetica del passato dei parenti e della propria identità. Quella «casa» sono le Faer Øer, un arcipelago di 18 isole con cinquantamila abitanti tra Islanda e Norvegia, nel nord dell’Atlantico, legate politicamente alla Danimarca, da cui i nonni partirono nella Seconda Guerra Mondiale per la terra ferma e in cui lei ritorna. Un mondo a sé, di pastori e pescatori, tra leggende orali e voglia di modernità, che la danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen racconta con passione nel suo romanzo d’esordio. Jacobsen è ospite venerdì alle ore 19 de I Boreali-Nordic Festival al Teatro Franco Parenti in un incontro con Natascha Lusenti e letture di Federica Fracassi. L’abbiamo incontrata al suo arrivo in città.
Il suo romanzo, in fondo, è una lettera d’amore alle Isole Faer Øer, come mai potremmo amarle anche noi?
«Perché senti l’Oceano dovunque e la natura è sempre presente, non ci sono veri ambienti urbani e sei sempre vicino al cielo. Quando ci entri, sei completamente puro e resti a guardare le nuvole che camminano giù dalle cime dei monti fino a che ti ci ritrovi in mezzo».
Lei è cresciuta in tutt’altro ambiente in Danimarca, le Faer Øer erano «casa» nei racconti famigliari: quando ha deciso di raccontarle in un romanzo?
«Volevo dare corpo a un sentimento che provo, facendo parte di una terza generazione nata in Danimarca, quel sentirsi a casa senza esserlo veramente che provo alle Faer Øer e che condivido con la mia protagonista. È mia la sua domanda di fondo: “Perché desidero come casa un posto che non lo è?”. Non c’è una vera risposta, ma il tono nel
pensarci spero risulti poetico e delicato».
Lei definisce la terza generazione di figli di migranti come «la generazione néné», né appartenente a dov’è
nata né alla patria dei nonni. Com’è viverci?
«Era quello che volevo raccontare, nella politica danese non esiste, non se ne parla, si guarda solo alla prima e alla seconda. Dalla terza ci si aspetta che tu sia parte della società e che il luogo in cui tu sei sia casa. Ma non è così: hai le storie della tua famiglia, hai parenti, nel mio caso un centinaio di cugini, il suono di una lingua, per me il faroese, che comprendi ma non parli. Sei nel mezzo e rischi di non essere nulla».
Scrivendo di migrazione, lei dà spazio alla nostalgia, come mai per lei è difficile farlo nei media?
«Ci vorrebbe troppa empatia, si preferiscono, purtroppo, la paura e la disumanizzazione rispetto al migrante. Da quando ho pubblicato, tanti figli di terza generazione mi hanno scritto delle loro “case” lontane, dalla Libia all’Iran. È un desiderio comune perché quei luoghi, dove ti trovi e dove vorresti tornare, fanno parte di te e della tua cultura».