Il senzatetto: le notti in strada in cerca di riparo
Aldo, il manager che si è rialzato: ora aiuto la Caritas
«N oi li chiamiamo “canili” e li classifichiamo in base alla qualità. Ma molti nei dormitori non ci vogliono andare perché non sopportano le regole e la convivenza ravvicinata». Aldo Scaiano, 66 anni, ha vissuto per strada per qualche anno. E adesso, che fa il volontario come «Gatto spiazzato» della Caritas, racconta le notti dei clochard in cerca di un riparo.
«Io ci andavo nei dormitori. Esiste tra noi una classificazione in base alla qualità: canile 1, canile 2, canile 3». Aldo Scaiano ride di gusto, come se rievocasse avventure dei tempi del liceo o della naia. Ma i suoi ricordi, a 66 anni suonati, sono storie di strada, di vita randagia, di sopravvivenza alla giornata. E sono recenti. Perché la sua prima notte alla stazione Centrale risale a meno di cinque anni fa. «Impossibile dimenticarla: vestito ancora per bene, con il libro in mano sembravo un passeggero che aveva perso l’ultimo treno. Ma già alla seconda notte i poliziotti ti riconoscevano. Così ho iniziato a girare per la città fino a quando ho scoperto gli aeroporti».
Scaiano è laureato, ha lavorato per tutta la vita in grandi aziende, aveva una famiglia. La sua caduta verticale assomiglia a quella di altri senzatetto. Una separazione traumatica in età matura, il prepensionamento che si rivela una trappola per effetto della riforma previdenziale, il gruzzoletto di risparmi che si assottiglia sempre di più, quindi il vuoto. Compreso quello scavato con le proprie mani per isolarsi da amici e parenti.
Ancora oggi vive di pochissimo. Ma grazie a se stesso e all’appoggio trovato nella rete di solidarietà milanese, è diventato a sua volta un volontario, soprattutto come «Gatto spiazzato» che fa base alla «Piazzetta», il rifugio diurno aperto dalla Caritas in viale Famagosta. Ed è un grande conoscitore dell’umanità fantasma che di notte si rannicchia negli anfratti della città. «Ho parlato con qualcuno che conosceva quel poveraccio che è morto in via Vittor Pisani — racconta —, credo fosse uno stanziale, considerava quello come il suo posto abituale, si capisce da tutta la roba che aveva lì accanto». Si lancia in analisi psico-metereologiche per ipotizzare le scelte che potrebbero essere state fatali nella notte di gelo intenso. E poi spiega perché, molti clochard rifiutano di andare a dormire al coperto: «Qualcuno magari ha subito un furto una volta e non ne vuole più sapere, perché quando non hai quasi niente non riesci a tollerare di essere derubato di quel poco, ma la maggior parte lo fa per allergia alle regole: nei centri devi presentarti entro una certa ora, di solito le 22.30, e devi uscire entro una certa ora del mattino. E c’è l’alcol — prosegue —, nelle strutture non puoi bere e ubriacarti fino a stroncarti. Per strada ti aiuta a resistere e a dormire, ma quando sei a stretto contatto con tanta gente può succedere di tutto e magari sono proprio i responsabili del centro ad allontanarti. Poi devi anche fare i conti con quello che russa, con quello che prega all’alba... Insomma, alcuni si sentono più liberi fuori: si riempiono di coperte e tirano mattina».
Anche se molti tendono a ritornare nello stesso posto, le notti dei senzatetto sono animate da piccole transumanze: «Per esempio tutti sanno che alle 21 in piazza San Carlo arrivano quelli di Sant’Egidio e i volontari di San Simpliciano. Mezz’ora prima, dietro il Duomo, c’è l’unità di strada della Croce Rossa con un medico. E allora si va tutti lì. E c’è un calendario settimanale di interventi delle associazioni». Le giornate, invece, sono scandite da ritmi inventati dalla necessità e da un’attenta esplorazione degli spazi che la città offre gratuitamente: «Di giorno, per esempio, le biblioteche sono preziose — sottolinea Aldo —: sei al caldo, ci sono i bagni, c’è il wifi, c’è da leggere, puoi dormire appoggiato al tavolo. L’importante è non puzzare». Una volta scollinata la stagione fredda la comunità dei senza dimora si disperde nei parchi o lontano da Milano. «Ma salvarsi dal freddo non è tutto. Per avere una possibilità di riemergere serve un punto d’appoggio — tiene a dire Aldo —: io l’ho trovato nella Piazzetta della Caritas e nell’attività con i “Gatti”. Mi ha aiutato a ritrovare anche un ruolo al mondo».