«Quei tornei di calcio a San Patrignano con Gian Marco in panca»
Marco, ex tossicodipendente: in comunità mi accolse lui, era paterno
Dopo le esequie a Milano, con un bagno di folla nella chiesa di San Carlo, sono stati i 1.300 «ragazzi» di San Patrignano a salutare Gian Marco Moratti. «Non giocava bene a calcio, lo mettevamo in panchina — ricordano con affetto —. Allora è diventato il nostro allenatore».
«Quando a Sanpa c’erano i tornei, arrivava sempre in anticipo per farsi trovare da noi in posizione di centrocampista. Vestito di tutto punto, con l’autoironia che gli era propria e che pochi conoscevano. E noi ogni volta ridevamo, lo prendevamo di peso e lo spostavamo in panchina. Aveva quell’unico difetto, non sapeva giocare a calcio e non si arrendeva all’idea: gli piaceva troppo provarci. Con il tempo diventò l’allenatore della nostra squadra. Gli volevamo un grandissimo bene».
Marco Stefanini è uno dei 1.300 «ragazzi» che ieri pomeriggio a San Patrignano hanno riempito di fiori bianchi l’ingresso dell’auditorium («Noi lo chiamiamo PalaSanpa») per l’ultimo saluto a Gian Marco Moratti, già celebrato a Milano al matino, nella chiesa di San Carlo, da un bagno di folla.
Si conobbero quarant’anni fa. Era l’estate del 1981, Stefanini arrivò in comunità trascinato dai genitori, non era neanche maggiorenne: «Parevo il fantasma di me stesso, consumato dalla droga. Ad accogliermi all’ingresso, insieme a Vincenzo Muccioli, c’era lui, con quella sua forza tranquilla, il suo fare paterno e discreto. Se ripenso alle volte che ci ha ripreso con decisione perché volevamo scappare per bucarci di nuovo, salvandoci la vita..». Quel «ragazzo» ha fatto un lunghissimo percorso, si è disintossicato e ancora oggi — a 55 anni — vive a San Patrignano, come operatore.
«In tutto questo tempo Gian Marco è venuto in comunità ogni fine settimana, con Letizia e a volte con i figli. Passava con noi il suo tempo libero, tutte le vacanze. All’inizio ci chiedevamo come mai un uomo come lui, del suo calibro, ci preferisse all’ambiente milanese. Poi abbiamo stretto un legame così forte che era semplicemente naturale trovarlo al tavolone per mangiare, in falegnameria, tra le vigne — racconta Stefanini —. Aveva l’aria di chi non voleva insegnare nulla, e neanche domandava niente, se non eri tu a parlare. Solo a quel punto si metteva vicino e ascoltava, con rispetto».
L’ultima volta che è andato a San Patrignano è stato il mese scorso, per Inter Fiorentina. Aveva radunato i dieci interisti sfegatati della comunità («negli anni ci aveva contagiato, regalandoci le magliette nerazzurre»), e li aveva invitati nella casetta che aveva dentro la comunità, «uguale a quelle di noi operatori». Le partite le guardavano sempre così: da lui, insieme. «La malattia l’aveva un po’ sfiancato ma a guardare il gioco si era lasciato prendere, pieno di idee, di incitamenti per i calciatori. A fine serata ci ha abbracciato uno per uno, con il suo fare un po’ da “nonno giovane”, come ci dicevamo tra noi. Forse se lo sentiva, che era l’ultima volta. Ma non si è mai lamentato. Mai, in tutto questo tempo». Era uno che «scommetteva sugli uomini», ricorda ancora Stefanini, azzeccando le parole.
Nel 2011, con la dipartita di Andrea, il figlio di Muccioli, furono Gian Marco e Letizia a «ricostruire l’identità di San Patrignano», anche risanando i conti. Ora riposerà al cimitero che sta dentro alla stessa comunità. «Ce l’ha detto chiaro non molto tempo fa. Voleva una tomba in mezzo ai suoi ragazzi. E scherzando, ha chiesto anche una cosa: “Sulla lapide scrivete come vi allenavo. Non come giocavo a calcio. Mi raccomando”».