Ernest, una vita di corsa La fuga dal Ghana e la Stramilano dei sogni
In Italia da profugo, ora è una promessa dell’atletica
«Schiavo» in Libia, aspirante maratoneta a Milano. Ernest Johnson, originario del Ghana, è sopravvissuto al carcere, alle percosse, alle condizioni disumane di lavoro e al viaggio in gommone fino all’Italia. Corre veloce, velocissimo: «Sono abituato a scappare», dice con fierezza. Ha vinto una dozzina di campionati locali e si prepara per la Stramilano competitiva del 25 marzo, che potrebbe segnare il suo definitivo riscatto. Jeans, fisico da atleta, italiano titubante, il ragazzo, ora diciannovenne, ha voglia di raccontare la sua storia, ma soprattutto di guardare al futuro.
A dieci anni è rimasto orfano di entrambi i genitori. Lui e la sorellina minore sono cresciuti con gli zii paterni. Quando morì lo zio, in casa arrivò un integralista musulmano: «Ci impose un’angheria dietro l’altra e ci ordinò di convertirci alla religione islamica», ricorda. A sedici anni, scappa con la sorella. Non trovano lavoro, vivono per strada, alla fine alcuni conoscenti prendono in carico la ragazzina. Mentre lui va in Libia con un suo grande amico. Sperano di trovare un impiego ma le cose vanno diversamente. Arrestati quasi subito perché senza documenti, vengono spediti in carcere.
L’amico muore per i maltrattamenti e le percosse, Ernest sopravvive, riesce a scappare di nuovo, in campagna. «Correvo con paura e con rabbia, era la mia valvola di sfogo. Andavo a piedi scalzi sui sentieri sterrati, allontanandomi da tutto e da tutti. Cercavo di andare fortissimo, di spiccare il volo. Anche per non sentire il dolore dei sassi sotto ai piedi». Non scherza affatto, ripensando al passato.
Ad un certo punto incontra una sorta di ‘protettore’ che gli promette un lavoro, ma lo vende invece come merce ad un proprietario terriero. «In fattoria eravamo schiavi, letteralmente. Pochissime ore di sonno, frustate per farci lavorare ancora più sodo nei campi, condizioni disumane. Avevamo appena la forza di mangiare qualcosa per non morire», è il drammatico racconto.
Ernest scappa l’ennesima volta, va a Tripoli, poi entra in contatto con un mercante di uomini che sta organizzando un viaggio in gommone fino all’Italia. Era il luglio 2016, non aveva ancora 18 anni. Sulle coste siciliane vicino a Trapani arriva come minore non accompagnato, naufrago con altri disperati.
Risale lo Stivale, arriva a Monte Marzio, un paesino di trecento anime in provincia di Varese, e viene ospitato in un centro di accoglienza per profughi. È magro come un chiodo, ma nel giro di un mese ritrova le forze e si sposta a Varese, in una residenza gestita da Progetto Arca. Come prima cosa chiede di potersi mettere a correre: scrive via Facebook, in inglese, alla società sportiva Runner Varese.
Al primo allenamento, capiscono che Ernest è uno su cui puntare. «In squadra sono l’unico richiedente asilo ma mi hanno trattato subito con umanità», ringrazia. In un anno e mezzo di gare agonistiche ha collezionato una dozzina di coppe e medaglie. Con l’aiuto della onlus ha trovato anche un lavoro da magazziniere e inoltrato la domanda per l’asilo politico, ancora in attesa di risposta. In pista passa tutto il tempo libero, sfrecciando veloce come un fulmine. Tra due settimane la grande sfida a Milano. E il suo pensiero va alla sorellina, rimasta al Paese.
«È la mia famiglia. Ci sentiamo via Skype, ma non la vedo da tanto. Sta crescendo, è una piccola donna e ha bisogno del mio aiuto — dice —. Quando sono andato via, avevo promesso a me stesso che a lei avrei sempre badato, visto che nostro padre non c’è e noi siamo cresciuti insieme, fino a che abbiamo potuto. Verso di lei sento una importante responsabilità. Se vinco qualche premio, le manderò tutto. Sogno che un giorno mi raggiunga qui. E che mi veda correre. Al Paese lo facevo scalzo, adesso mi hanno comprato persino le scarpe».
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