Alessandro Mannarino alla scoperta del Brasile
Mannarino: «Per cambiare ci vuole coraggio»
Con l’ultimo disco «Apriti cielo», uscito nel gennaio 2017, si è affrancato dall’etichetta di cantore della suburra, delle periferie, di un’umanità ai margini. Alessandro Mannarino è volato in Brasile per rimettere in discussione tutto e ha inciso un album che accantona quasi completamente il romanesco, fondendo il blues e il folk con i colori della musica tropicalista di Gilberto Gil e Chico Buarque. Ora il cantautore romano è impegnato in un tour nei teatri, «L’impero crollerà», che domani e venerdì lo porterà agli Arcimboldi. «Il titolo rimanda a due imperi», spiega Mannarino. «Uno è l’Occidente come sistema sociale per me discutibile. L’altro è l’impero interiore e coincide con la sclerotizzazione di noi stessi, con la paura di cambiare e di metterci in gioco causata da retaggi culturali legati all’identificazione con uno Stato, con una bandiera, con una Chiesa, con la famiglia. Identificazione in cui non mi ritrovo e che critico». Parla di «coraggio della libertà», il 38enne Mannarino. «Ma attenzione — precisa —, la libertà non è un concetto astratto: è una conquista fatta di piccole rivoluzioni cui si arriva solo se si riesce a interrompere una coazione a ripetere dettata da condizionamenti esterni. Nel mio caso mi sono levato il cappello, con “Apriti cielo” ho cambiato rotta, e questo a dispetto del successo delle mie vecchie canzoni. Capita spesso di vedere artisti che, trovata una formula che funziona, non la mollano più per non tradire le aspettative del pubblico, solo che così si rischia di recitare una parte e di non evolversi».
Agli Arcimboldi il nostro — che ha da poco pubblicato un singolo con Samuel dei Subsonica, «Ultra Pharum» — sarà accompagnato da un ensemble di sei elementi e da uno stand di Medici Senza Frontiere. «Sono stato fidanzato con un’operatrice di questa Ong, così ho avuto modo di conoscere più da vicino quel mondo», confida. E osserva: «In generale l’idea che mi sono fatto è che in queste realtà l’aiuto che si offre ai poveri è spesso unito a una cultura dell’assistenzialismo che non mi piace, perché favorisce il mantenimento dello status quo. Gli operatori delle Ong si creano un’identità basata sull’idea che loro sono quelli buoni e solidali che aiutano i più deboli, e va bene, solo che così finisce che per continuare ad averla, quell’identità, loro stessi hanno bisogno dei meno fortunati, dei disperati. È una mentalità basata sull’idea di conquista da cui vorrei ci si staccasse».