«Proprietà lampo e affari sporchi: la mala-movida rovina il settore»
Le imprese storiche: concorrenza sleale
Insegne che cambiano in fretta. Ristrutturazioni faraoniche. Mentre i locali storici della movida fanno fatica a pagare le bollette. «Ci tolgono lavoro». L’accusa è diretta agli esercizi che hanno legami con la criminalità organizzata. Il problema va al di là di corso Como, dove ieri il «Dom» è stato chiuso in seguito a una interdittiva antimafia. «Riguarda tutto il centro di Milano» dice Valerio Tedaldi, titolare della discoteca «11Clubroom» nella vicina via di Tocqueville. «Le attività preferite da chi fa affari loschi sono bar, ristoranti, pizzerie — dice —. Sono ben riconoscibili: cambi di proprietà frequenti, locali dagli arredi vistosi». Un dispendio di risorse che non è giustificato dalle entrate dovute alla clientela. «È evidente che ci sono sotto altri interessi e penso lo sappiano anche le autorità. Ci chiediamo perché i tempi di intervento siano così lunghi».
Altro quartiere, altro punto caldo della notte milanese: Porta Ticinese. Erwan Maze, a capo dell’associazione dei commercianti di zona, ha sotto gli occhi «gli investimenti pesanti» di alcune realtà, che mutano nome dall’oggi al domani. «Ma non è mio compito segnalare alle forze dell’ordine. Sono un cittadino, non un gendarme e non posso fare indagini». Il dilagare di locali poco trasparenti ha conseguenze che ricadono su tutto il settore. «Siamo vittime. Così come siamo colpiti da spaccio e violenza, da cui cerchiamo di difenderci». Spostiamoci a Brera. Dal suo punto di osservazione, il bar Jamaica, Micaela Mainini parla di una città in cui «la movida non va più di moda. E ormai questo è un quartiere turistico, dopo l’ora di cena si svuota. Siamo un’oasi di pace». Le nuove aperture nelle vie adiacenti, come corso Garibaldi, destano sospetti visto il mercato in calo.
«Da una parte si è innescato un business malsano. Si apre un locale, si fa credere che vada forte e lo si rivende». E il malcapitato si accorge troppo tardi di debiti non saldati. Dall’altra bar e ristoranti sfruttati per il riciclo di denaro. «Vediamo realtà che prendono multe stratosferiche perché non rispettano i regolamenti, le pagano con tranquillità e tornano a lavorare come se niente fosse. Come fanno? Di solito non sono proprietà singole, ma parte di gruppi o catene». Nomi non se ne fanno. Anche perché «ci arrivano come pettegolezzi». Ma i dubbi rimangono. Le denunce difficilmente partono dai colleghi. «Prima di tutto non abbiamo documenti o prove da presentare e poi ciascuno si chiede: “Chi me lo fa fare?”».
All’Arco della Pace e in corso Sempione il primo cruccio di chi ha un’attività è la sicurezza. «Abbiamo da tempo servizi privati per tutelare noi e i clienti» dice Fabio Acampora di Asco Arco della Pace, nonché vicepresidente di Epam (che riunisce i pubblici esercizi milanesi). A queste preoccupazioni, si aggiunge la difficoltà di lavorare fianco a fianco con realtà dalla gestione ambigua. «Non si tratta solo di etica o di ordine pubblico — continua Acampora —. Quei locali hanno una mission diversa e compromettono la concorrenza dei vicini. Sono il primo a sostenerla, ma deve essere valida. Noi cerchiamo di avere sempre più clienti, loro hanno altri scopi». Non è stupito dalle chiusure di locali nei quartieri della movida. «Mi pare chiaro che la malavita operi dove c’è movimento e può mischiarsi, passare inosservata». Comitati e associazioni riconosciute possono svolgere una funzione da garante e «cordone» alle situazioni di illegalità. «Fare quadrato serve a discutere con la pubblica amministrazione, ma non solo». In 23 anni di carriera «non mi sono mai arrivate segnalazioni di situazioni illecite. Ma la criminalità organizzata è presente».