L’AZZARDO DI UN PAESE IMPLOSO
Rien ne va plus. Il fallimento del Casinò di Campione d’Italia, che tre curatori stanno cercando in queste ore di evitare, con una operazione che ha poche possibilità di riuscita, è la prova provata che nel mondo alla rovescia che stiamo vivendo, nulla è più come prima. I bus turistici che la sera conducevano i benestanti milanesi a caccia di emozioni fino alle porte della sala da gioco, ora sono un ricordo: il casinò ha chiuso dopo un secolo dalla prima apertura e lascia un buco di 132 milioni di euro. La preoccupazione è soprattutto per gli effetti di questa chiusura: sono a rischio 600 posti di lavoro ed è irrituale pensare ai benefici sociali che possano derivare dall’industria del gioco d’azzardo, che prospera sul vizio. Eppure, quando le dimensioni dell’impresa sono tanto ridotte, quando le interazioni tanto strette, l’economia difficilmente può reggere. Specie in un’epoca globalizzata. Lo capì il Comune di Venezia, venti anni fa, quando aprì un casinò a Ca’ Noghera, sulla terraferma, vicino alle autostrade e lontano dagli sfarzi di Ca’ Vendramin Calergi, la sede storica sul Canal Grande, cercando nuovi clienti. Il Casinò di Campione chiude perché non ha remunerato il Comune di Campione d’Italia, suo unico azionista, non ha restituito i prestiti alle banche e non ha saldato i conti con l’Agenzia delle Entrate. Un intero sistema è imploso, forse anche perché per buttar via i propri risparmi, oggi, basta andare dal tabaccaio all’angolo.