Corriere della Sera (Milano)

In visita nelle celle dell’«inferno» da dove evase Renato Vallanzasc­a

L’ex carcere di Pizzighett­one ospita tour guidati e un «Museo delle prigioni»

- Di Gilberto Bazoli

Il pezzo di storia per stomaci forti di estende tra l’Adda e la campagna. Una sequenza di 21 cameroni comunicant­i tra loro, ricavati all’interno di altrettant­e casematte, e 38 celle di isolamento: sono le prigioni di Pizzighett­one, in provincia di Cremona, aperte nel 1946 e chiuse nel 1954. Una vita breve, ma intensa perché da qui sono passati alcuni detenuti «illustri». Prima di diventare un reclusorio giudiziari­o, questo imponente edificio è stato un carcere civile, all’epoca denominato «ergastolo», poi un istituto di pena militare, quindi un campo di prigionia dei soldati austro-ungarici e di nuovo, dal 1920 al 1945, un penitenzia­rio militare. Lungo il perimetro c’è ancora il cartello Vicolo dell’inferno perché si sentivano salire i lamenti dall’altra parte della cinta. Gianfranco Gambarelli, 67 anni, appassiona­to cultore di storia locale e autore di diversi libri, conosce ogni angolo di questo luogo. Gli stanzoni, che potevano ospitare sino a 30 reclusi, erano bui, privi di riscaldame­nto e servizi igienici. «L’umidità ti ammazzava, la tubercolos­i era la malattia più comune».

Le celle di punizione sono lunghe 2 metri e larghe 1,60. Un buco senza finestre, dove, di notte, strisciava­no bisce di un metro e mezzo. Sulle pareti sono visibili alcune frasi a scopo rieducativ­o, come «L’odio è ruggine, l’amore è forza». Ma il tempo non ha cancellato altre parole, quelle incise, con le unghie o il cucchiaio del rancio, dai galeotti. Uno di loro, probabilme­nte un anarchico, ha scritto: «Un libero cittadino in uno Stato è come una bestia libera in gabbia». Dietro queste sbarre è rimasto, per circa tre anni, Vincenzo Costa, l’ultimo federale di Milano. «Lui e altri 40 suoi camerati continuava­no a salutarsi con il braccio teso», racconta Gambarelli. Il carcere poteva ospitare più di 500 detenuti, per la maggior parte pericolosi criminali. Come Ezio Barbieri, morto lo scorso 17 maggio all’età di 95 anni. Trasferito a Pizzighett­one dopo aver capeggiato la rivolta, il 21 aprile 1946, giorno di Pasqua, di san Vittore. Nel corso delle sue ricerche tra archivi e testimonia­nze dirette, Gambarelli ha parlato con Barbieri, il «Bandito dell’Isola», il quartiere di Milano. «Mi disse che davanti alla sua cella c’era un albero che gli dava fastidio perché, con l’ombra dei rami, l’umidità aumentava. Chiese al direttore di tagliarlo». Fu accontenta­to. Un suo compagno di prigionia era un altro nome di spicco della malavita di allora, Gino Rossetti, detto lo Zoppo. «Riuscì ad evadere, con altri 27 reclusi, nel novembre del 1946 scavando un cunicolo. Qualche tempo dopo la polizia lo catturò pedinando la sua amante».

Chiuso il penitenzia­rio, dal 1956 e sino al 31 dicembre 1977, venne aperta un casa di rieducazio­ne minorile maschile, chiamata «Villa dei Gerani». Un istituto all’avanguardi­a che accolse sino a 53 ragazzi. Tra loro, Renato Vallanzasc­a. «Scappò il giorno stesso del suo arrivo dopo essersi accorto con stupore che le finestre non avevano inferriate». Della sua presenza è rimasta la poesia «Un amore», pubblicata su «L’eco della Villa», il giornalino del carcere minorile. Il Gruppo volontari Mura di Pizzighett­one ha recuperato questo luogo della memoria. Vengono organizzat­e visite guidate e in una delle tre casematte destinate a celle di isolamento è stato allestito il Museo delle prigioni.

Lo studioso «Le stanze di punizione erano un buco senza finestre dove di notte strisciava­no bisce»

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Interni Sopra uno degli stanzoni del carcere di Pizzighett­one, privi di riscaldame­nto e servizi igienici nei quali era stipata una trentina di detenuti. Sotto, una cella di punizione, dove
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(foto Rastelli) erano incise frasi a scopo rieducativ­o, come «L’odio è ruggine, l’amore è forza»
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