«Versi sui muri» Condannato il poeta di strada
Cinquecento euro di multa al «poeta di strada» Ivan Tresoldi. Per il giudice le sue scritte sui muri non sono una forma artistica, ma solo imbrattamenti. «Era convinto che le poesie migliorassero i luoghi», ha sostenuto l’avvocato difensore di Tresoldi che, saldo nelle sue convinzioni, nelle precedenti udienze non ha voluto patteggiare una pena di 80 ore di servizio civile.
Essere ritenuti in grado di superare il confine che passa tra ciò che è arte e ciò che non lo è spesso può dipendere da chi è chiamato a giudicare la qualità dell’opera in un dato momento. Quello che oggi non è considerato un’opera potrebbe esserlo benissimo un domani, come dimostra la lunga fila di geni incompresi che hanno dovuto attendere molti anni prima di essere riconosciuti come artisti. Potrebbe essere il caso di Ivan Tresoldi, il «poeta di strada», il quale, per ora, è stato condannato a 500 euro di multa perché al giudice monocratico le sue «poesie» sono sembrate più un modo per imbrattare i muri di Milano che di renderli degni di una pinacoteca.
Tresoldi, 37 anni, esprimeva il suo estro usando i muri come fogli di carta sui quali, tra il 2011 e il 2014, ha vergato frasi come «Ci sono vite che capitano e vite da capitano», oppure «Scriviamo un futuro semplice per un passato imperfetto» o anche «Una pagina bianca è una poesia nascosta». Come artista di strada e poeta, ha partecipato a varie manifestazioni realizzando anche un catalogo. Lui, ha detto al processo il suo difensore, l’avvocato Angela Ferravante, «era convinto che le sue poesie migliorassero i luoghi», non certo di imbrattare i muri, come ha sostenuto l’accusa del pm Elio Ramondini. D’altronde, ha aggiunto il legale, rifacendosi a una nota firmata da alcuni intellettuali, «la poesia di strada è una forma antica e di costruzione di società».
Fermo nei suoi propositi, Ivan Tresoldi nelle scorse udienze non ha voluto patteggiare una pena che prevedeva 80 ore di servizio civile a favore del Comune. Quando fu denunciato dopo che si era espresso su un muro alla Bicocca aveva consegnato alla Polizia locale le foto di una ventina di lavori che aveva eseguito in altre zone di Milano. Sono finiti anche essi nel capo di imputazione. Interrogato nel processo di fronte al giudice Roberto Crepaldi, aveva detto di aver sempre operato dopo avere «condiviso» il suo progetto con gli abitanti del posto e che non sempre è necessaria un’autorizzazione formale per certi interventi perché ne basterebbe «una verbale, ma conclamata, dei cittadini». Aveva tenuto a precisare: «Io non deturpo lo spazio pubblico, le mie vernici sono ad acqua e le opere si cancellano col tempo».Per questo il suo avvocato ha chiesto che fosse assolto. Diversa la valutazione del giudice che, oltre a infliggergli la multa per imbrattamento, ma concedendogli le attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena, lo ha condannato a risarcire il danno al Comune di Milano e all’Aler che si erano costituiti parti civile.