Il super-fisico della Nasa che indaga le stelle pulsar «Ora riparto da Milano»
Brambilla, gli studi negli Usa e il rientro. «Ma in azienda»
Alla Nasa e ritorno. Fisico, quattro anni nel centro spaziale Goddard di Washington DC a studiare le stelle insieme a ricercatori da tutto il mondo: adesso Gabriele Brambilla, 29 anni, è tornato di nuovo qui, a Milano, per inseguire un sogno controcorrente rispetto a tanti dottorati. Una strada lontana dai percorsi accademici.
«Volevo impegnarmi in un’azienda per vedere in modo più pratico e veloce il risultato del mio lavoro», racconta. Sfiducia nelle università? Il contrario: «Per tutto questo tempo sono stato nell’ambiente della ricerca, con mille e una gratificazione, scoperte anche importanti, qualità estrema dei dipartimenti, taglio pratico e autonomia nel lavoro. Caratteristiche che in America sono più scontate rispetto all’Italia». Eppure, quando si è trattato di scegliere per il post Ph.D., non ha avuto dubbi.
«Un post doc russo che lavorava con me alla Nasa soleva dire che nella ricerca uno ci sta razionalmente solo se pensa che sia l’unica cosa che vuole fare nella vita. Perché le fatiche, oltre alla precarietà, sono tante, forse troppe». Per esempio non ci sono programmi «corti», ci vogliono almeno due o tre anni per ottenere risultati apprezzabili. «In azienda, i progetti sono meno complessi e più veloci».
La storia inizia molti fa, dopo il liceo scientifico. «Volevo scegliere chimica, all’università, la mia professoressa mi ha guardato fisso negli occhi: “Al limite fai Fisica, che è meglio”; mi ha detto. Voleva scoraggiarmi e ci è riuscita. Ma, a ripensarci, meglio così», sorride Gabriele. In ateneo era tra gli studenti bravi, pur senza lode. A fine percorso, quando si trattò di scegliere il centro di studio per la tesi specialistica all’università, fa domanda alla Nasa: «Volevo studiare la luce delle pulsar, residui di stelle esplose. Era il mio chiodo fisso e pochissimi centri al mondo sono specializzati su questo». La difficoltà era mantenersi, «anche se i miei mi coprivano il cibo e le spese quotidiane. Ho scritto a decine di associazioni e finalmente una, il Rotary Club Colli Briantei, mi ha dato 5 mila euro. Sono partito subito e non sarò mai abbastanza riconoscente».
Arrivato là, l’impatto: «Era un campus enorme, con tanti edifici quanti erano le discipline, forse ancora di più. C’erano due palazzi solo per studiare il Sole. Nella mia università, a Fisica, non lo studiava nessuno», dice Gabriele, che ha assorbito un po’ della cultura Usa. E poi: «Telescopi spaziali di ultima generazione, incredibili». La prof a Washington gli chiede di fare il Ph.D. con lei, pagato con fondi americani. Doveva però trovare un’università che lo appoggiasse, e la Statale lo ha fatto. «Ero pagato, all’inizio solo dalla mia capa americana, poi ho conquistato anche una borsa di studio a Milano che copriva circa metà dello stipendio». Finito il Ph.D, il dilemma: che fare? «Avevo offerte per continuare come ricercatore in università ma io volevo andare a lavorare in azienda. Ho pensato a anche a Londra, dove mi avevano fatto un’offerta, ma ho preferito Milano». Per ora vede intorno a sé una città e una multinazionale molto stimolanti. «Non tornerei indietro — conclude Gabriele — Penso di aver fatto la scelta giusta».
L’analisi Potevo rimanere ricercatore Ora vedo in modo pratico il risultato del mio lavoro
Il confronto L’università gratifica: c’è qualità, ma in azienda i progetti sono più veloci