Quaranta licenziati con il cesto di Natale
Varese, chiude la fabbrica della multinazionale Hammond. I sindacati: uno choc
L’ amministratore delegato della Hammond Power Solutions di Marnate (in provincia di Varese) ha prima consegnato ai 40 dipendenti il cesto natalizio. Poi ha annunciato la chiusura della fabbrica, filiale italiana della multinazionale canadese. Quaranta lavoratori licenziati in tronco. Uno choc. Anche perché l’azienda aveva fatto assunzioni di recente. I sindacati promettono battaglia.
VARESE Tutti i dipendenti avevano ancora in bocca il sapore del panettone quando l’amministratore delegato della Hammond Power Solutions di Marnate ha preso la parola e in inglese, tradotto in simultanea da una collega, ha annunciato la cessazione dell’attività della fabbrica in provincia di Varese dove lavorano 40 persone. E non è una metafora perché i lavoratori, alle 14 dello scorso 18 dicembre, si erano dati appuntamento per la consegna del tradizionale cesto di Natale: un’allegria spenta neanche due ore dopo quando la dirigenza della multinazionale canadese specializzata in trasformatori elettrici ha dato l’annuncio.
C’è chi si è messo a piangere. E chi ha subito pensato al mutuo appena acceso per l’acquisto dell’appartamento, come Gabriele Cogodi, in azienda da 13 anni e che il giorno stesso aveva terminato il trasloco nella nuova abitazione di Marnate: «Ho comprato casa vicino al posto di lavoro, una vera fregatura», racconta incredulo. Il sindaco Marco Scazzosi, commercialista, parla di «annuncio inopportuno. Mai vista una cosa del genere. Col passare delle feste faremo il punto».
Una vera e propria doccia gelata dal momento che la sede italiana della multinazionale fondata nel 1917 a Guelph, in Ontario, da Oliver Hammond, non navigava in cattive acque: a settembre i sindacati erano riusciti a strappare alla direzione contratti più vantaggiosi e c’erano nell’aria assunzioni e potenziamento del sito produttivo. «Tant’è che solo il giorno prima era stato assunto a tempo indeterminato un dipendente dell’area commerciale per la produzione italiana — spiega Rino Pezone, della segreteria provinciale Fiom Cgil —. L’azienda non andava male e sono sempre stati pagati gli stipendi. C’era stato, sì, il ricorso alla cassa integrazione, utilizzata però non in maniera massiccia. Sappiamo di alcuni dipendenti che rifiutarono la proposta di un concorrente nelle vicinanze, forse anche alla luce del posto di lavoro ritenuto sicuro».
Le lettere di licenziamento non sono ancora state spedite ma sono scattati i 45 giorni che precedono la «cessazione attività; la produzione è ferma e riprenderà il 7 gennaio, data in cui il sindacato ha annunciato un incontro informale col legale della proprietà. Si profilano ora tre strade: la chiusura, un nuovo acquirente o un passo indietro del gruppo che controlla la filiale italiana, quotato alla Borsa di Toronto e con stabilimenti anche in Usa, Messico e India.
Conclude il sindacalista: «La dirigenza è intimorita dei possibili contraccolpi dovuti al grande clamore di questo episodio. Sono preoccupati della Borsa di Toronto. Io di quella dei 40 che vogliono lasciare a casa».