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Il Centro Culturale ospita una mostra sul grande fotografo ungherese Novanta scatti che raccontano le sue tappe esistenziali e geografiche
Vedere con gli occhi trasparenti di un bambino, capaci di trovare la meraviglia in un dettaglio. E al tempo stesso essere maestro di equilibrio formale, composizione, inquadratura, tanto da trasportare quello stesso dettaglio dalla dimensione banale della quotidianità a quella evocativa della poesia. È la magia di André Kertész (Budapest 1894 – New York 1985), ebreo ungherese, considerato uno dei padri fondatori della fotografia moderna: di lui Cartier Bresson diceva che «tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima». Dopo Venezia e Genova l’anno scorso, oggi l’autore approda al Centro Culturale di Milano con la rassegna «André Kertész. Lo stupore della realtà» che inaugura questa sera alle 18.30. Curata da Roberto Mutti e ideata da Camillo Fornasieri, organizzata dal Jeu de Paume di Parigi che ne conserva l’archivio, la mostra propone 90 scatti, per la maggior parte in purissimo bianco e nero. Una novità la presenza di una decina di stampe a colori, poco note, virate su gamme cromatiche sobrie o delicate. La mostra si sviluppa attraverso un percorso cronologico, che segue le tappe esistenziali e geografiche della vita di André: da Budapest e dall’Ungheria a Parigi, dove emigra nel 1925 e vive tra gli artisti, dai Surrealisti a Chagall, da Léger a Mondrian e Brancusi. Poi a New York nel 1933, anni sofferti per il nazismo in Europa e per l’incomprensione del suo linguaggio, che gli americani ritengono troppo espressivo: il riconoscimento ufficiale arriva solo nel 1964, con una grande antologica al MoMa.
Ma come inquadrare la maniera insolita e peculiare di Kertész? «È possibile accostarlo alla “straight photography”, cioè la fotografia diretta, immediata, di buon reportage», spiega il curatore, «ma anche alla cosiddetta “photographie umaniste” francese, che ricerca il senso profondo dell’esistenza, il rapporto autentico con le persone e con la vita». E poi il contatto con le avanguardie artistiche a Parigi, che lo incoraggia a sperimentare. Come nell’interesse per la deformazione, già nel «Nuotatore» del 1917 sotto il pelo dell’acqua, sviluppato poi nelle figure femminili delle «Distorsioni» degli anni Trenta. O, sottolinea Mutti, nei punti di vista dall’alto, tagli audaci e dinamici, elemento costante del paesaggio urbano di Kertész; o ancora nei perfetti grafismi di ponti e scale costruiti dal gioco luce-ombra. «Anche quando è diventato un professionista, André Kertész ha saputo sempre conservare la freschezza di un semplice appassionato che scatta in modo libero, curioso, per puro e personale piacere. Ma con una coerenza di fondo, che si ritrova nel ripetersi dei temi attraverso il tempo». Molti gli scatti iconici, che restano nella memoria del visitatore. Dagli still life che sospendono il tempo ai parchi sotto la neve, dagli scorci di Parigi e New York al «Bacio» rubato ad una giovane coppia di Budapest. Un bacio a cui Doisneau, Cartier Bresson, Berengo Gardin devono probabilmente qualcosa.