Delitto della valigia, il killer «Fui drogato per uccidere»
La vittima fatta a pezzi, parla in cella il ventenne Dilan
Ha partecipato alla grigliata nella villetta di via Carrà, lo scorso 30 marzo. Ma non c’entra nulla con l’0micidio, «perché mi hanno drogato così da potermi usare per fare a pezzi il cadavere». Dal carcere, ecco le «verità» del 20enne Dilan Mateo Mateus Carddenas, colombiano come la vittima e come gli altri presenti (alcuni dei quali sarebbero spariti e non sono stati ancora trovati). I presenti uniti da un passato criminale che li ha portati a realizzare colpi in tutto il mondo. Il legale del 20enne: «Test del capello per accertare la presenza di sostanze stupefacenti».
Lo scorso sabato 30 marzo, alla grigliata organizzata nella villetta di via Carlo Carrà, alla Bovisasca, c’erano soltanto connazionali e concittadini nati a Bogotà, la capitale della Colombia, nello stesso povero quartiere (anzi, nelle stesse esatte vie). Uno dei colombiani, il 22enne Cristian Giovanny Hernandez Tauttiva, è stato accoltellato, fatto a pezzi e nascosto in un trolley. La valigia è stata prima posizionata nel gabbiotto dei rifiuti delle case popolari di via Cascina dei Prati, vicina a via Carlo Carrà, e quindi incendiata.
Dei presenti, tre sono stati arrestati dai poliziotti della squadra mobile con l’accusa di aver eseguito il delitto e lo smembramento, e di aver appiccato le fiamme. Fra di loro, c’è il 20enne Dilan Mateo Mateus Carddenas. Quelle che seguono, sono le sue parole raccolte dal Corriere attraverso l’avvocato e attraverso fonti investigative tra procura e questura; altre fonti, sempre investigative ma colombiane, consentono di iniziare a capire che cosa ci possa essere stato dietro la fine di Hernandez Tauttiva.
Il rischio di vendette Detenuto nel carcere di Opera dopo la cattura nelle ore successive all’omicidio, Dilan Mateo trascorre i giorni esibendo tranquillità. La galera certamente non lo spaventa, anche se — pur sempre senza tradirsi nell’atteggiamento e nei comportamenti —, ha due preoccupazioni. Nel suo ordine di importanza: che qualcuno possa vendicarsi sugli amati famigliari in Colombia, e che qualcun altro provi a regolare, o far regolare, direttamente i conti con lui nel penitenziario, aspirando allo scorrimento di parecchio sangue. Ciò premesso, il passato del 20enne parla per lui (e lui non lo nasconde). Il panorama tratteggiato da quelle fonti colombiane ci porta a un’infanzia delinquenziale, a una progressiva «crescita» e infine a un processo di «internazionalizzazione». Da Bogotà, Dilan Mateo, insieme agli altri colombiani della villetta, ha iniziato a girare il mondo, creandosi sempre un’attività di copertura — risulta che fosse impiegato in città come cameriere — e proseguendo nelle azioni criminali. Ad esempio le rapine.
Ragazzi di strada Storicamente, in Colombia, non sono i «ragazzi» di Bogotà quelli che comandano i cartelli della droga. Negli ambienti delinquenziali di una città invece dominante nelle rotte, come Medellin, i «figli di Bogotà» sono visti con disprezzo perché non arrivano a muovere tonnellate di cocaina ma devono «ripiegare» su altri campi criminali. Spesso, come detto, spostandosi di nazione in nazione, in una fisiognomia di banda che contempla figure femminili, solitamente escort di lusso (e in seconda battuta dei night), che permettono di agganciare clienti future prede oppure che divengono «pedine» fondamentali nella costruzione di una rete di amicizie. Uno scenario maschilista esemplificato da frammenti dell’omicidio, quando due dei presunti killer ordinarono a una connazionale di lavare in lavatrice i loro vestiti, sporchi di sangue, e di stenderli.
Il test del capello
Che cosa sia davvero successo nella villetta, potremmo scoprirlo prossimamente chiamando in causa altre voci. Per ora, restiamo al racconto dal carcere di Dilan Mateo, il quale ripete d’esser stato drogato affinché le sue difese si abbassassero e gli altri potessero «usarlo» per realizzare una delle fasi «cruciali» dell’assassinio, la divisione in sei pezzi del corpo. Al netto della veridicità o meno del resoconto, e al netto del suo «profilo» da balordo, resta un dato: l’analisi definitiva di quel sabato 30 marzo potrebbe ampliarsi di ulteriori elementi. L’avvocato Alexandro Maria Tirelli, il difensore di Dilan Mateo, chiederà l’esame del capello, per accertare l’eventualità che al cliente abbiano somministrato delle sostanze (c’è ancora tempo un mese per trovare risultanze: in caso positivo, bisognerà dimostrare che non ha assunto volontariamente la droga). Del resto, dice l’avvocato, «aspettiamo una dettagliata ricostruzione del fatto. Sono convinto che il ragazzo sia estraneo alla progettazione e all’esecuzione, fermo restando che teme ripercussioni personali e famigliari». L’inchiesta, coordinata dal pm Paolo Storari e sviluppata dalla squadra mobile di Lorenzo Bucossi, ha avuto il merito della celerità in un contesto difficile, appesa all’unico elemento «disponibile» del cadavere, un’impronta digitale sconosciuta alle banche dati italiane. Centrale è stato il ruolo della ragazza, pare l’unica donna presente nella villetta, dove forse c’erano altri uomini. Forse spariti e ancora in fuga.
La banda
L’omicidio durante una festa tra sudamericani membri di una gang criminale