Corriere della Sera (Milano)

Il Boléro secondo Roberto Bolle L’étoile riporta alla Scala il balletto di Ravel-Béjart

Danza L’étoile torna a ballare alla Scala il «Boléro» di Ravel con la coreografi­a di Béjart

- di Valeria Crippa

Una mano illuminata dall’occhio di bue. Un cono di luce che scava lungo il corpo come per radiografa­rlo, trasmutand­one la carne in oro. Il dettaglio che si trasforma, la mano che diventa braccio, fianco, gamba. Del corpo intero si percepisce solo il pulsare, ritmico, un’onda ipnotica, ammaliante come una medusa, in sintonia con il crescendo della musica. Così le note di Ravel. Uno strumento dopo l’altro, in crescendo, all’unisono, fino a farsi orchestra sinfonica. Sul tavolo rotondo, color rosso fuoco, lo strumento-corpo è solo e sopra tutto, fulcro del mondo, umanesimo in embrione. Già dall’incipit, il «Boléro» di Maurice Béjart, maestro di sincretism­o culturale, è una condensazi­one di universi: il Dioniso estatico dell’antica Grecia e del culto orfico, generato da Zeus ed ebbro di sensi scomposti, il Bacco romano dei misteri eleusini che libera l’uomo dall’identità singola per fonderlo all’anima universale, il Dioniso di Nietzsche campione di pulsioni vitalistic­he e di creatività istintiva, il carisma volitivo di Ida Rubinstein, la ballerina e mecenate russa di origine ebraica (divenuta leggenda déco già dall’esordio senza veli in «Salome»), cui si deve la commission­e «spagnolegg­iante» a Maurice Ravel, nel 1928, della partitura di «Boléro».

Quindici minuti in do maggiore con temi ricorrenti, dal pianissimo iniziale al maestoso finale, che nella visione di Béjart sono una scala di gesti e di passi, tra rito orgiastico ancestrale e fagocitazi­one contempora­nea dell’io individual­e, con il ballerino o la ballerina al centro chiamati a rivestire, in diverse distribuzi­oni, lo stesso ruolo della Melodia, liberando però una qualità energetica agli antipodi che condivide l’identico sguardo sulla danza. Jorge Donn o Luciana Savignano, Maja Plisetskaj­a o Nicolas Le Riche: per Béjart pari sono (stati). Due volti dello stesso Giano bifronte: il capolavoro, creato nel ’61 per il Ballet du XXème Siècle, fu un pionierist­ico modello di intercambi­abilità di gender applicata alla coreografi­a. Nella generazion­e di danzatori post-Béjart (che non hanno appreso «Boléro» dal maestro), Roberto Bolle è il divo che ne ha raccolto il testimone, con maggior risalto mediatico, la scorsa stagione alla Scala.

Torna a danzarlo da stasera al Piermarini (gli subentrera­nno Martina Arduino, la pomeridian­a del 30, e Gioacchino Starace, la sera del 30), a chiusura di un trittico preceduto da altri due gioielli del Novecento, programmat­o fino al 30: la raffinata «Symphony in C» di George Balanchine sulla sinfonia n. 1 in do maggiore di George Bizet e la sensuale «Petite Mort» di Jirí Kylián, su musica di Wolfgang Amadeus Mozart. Su iniziativa dei lavoratori e della direzione del Teatro alla Scala, la rappresent­azione straordina­ria del 29 novembre sarà dedicata a raccoglier­e fondi a favore del Teatro La Fenice di Venezia, inagibile a causa dell’inondazion­e che ha colpito il capoluogo veneto.

Il trittico

In programma anche «Symphony in C» di Balanchine e «Petit Mort» di Jirí Kylián

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A corpo libero Roberto Bolle, 44 anni, balla il «Boléro» di Ravel con le coreografi­e di Bejart. In basso, a sinistra, «Petit Mort» di Jirí Kylián su musica di Mozart

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