«Noi, spagnoli a Lambrate» A cena con i nuovi milanesi
Zona Lambrate, la casa dei Cladera: quante affinità con la Spagna
Nella cucina di Daniel e Sandra Cladera. Spagnoli, da tre anni trapiantati a Milano, a parlare di integrazione e arredo urbano. Di quello che qui manca e di quello che la Spagna dovrebbe imparare. Prima puntata di un viaggio nelle case delle coppie straniere a Milano.
Di italo-spagnolo c’erano i programmi di Fabio Volo, gli eterni tentativi di imitare la sangria o l’aggiunta di una S per parlare un pochino più caliente del solito. Benvenuti al Nord. Daniel catalano (soft) di Barcellona, Sandra andalusa (strong) di Cordoba. Lui lavora alla casa editrice Planeta da sempre. Tre anni fa gli dissero che doveva trasferirsi a Milano per curare DeA Planeta, la prolunga editoriale che unisce la narrativa spagnola a quella italiana griffata De Agostini. Sono arrivati qui che era l’estate del 2016. Che nella recente storia di Milano significa l’anno post sverniciata di colori di Expo. «Ci hanno spiegato che stavamo sbarcando nell’era della grande trasformazione», dicono. Nella cucina di casa, in sottofondo sale del buon jazz. «Milano è una formina in cui ti adatti bene. Quando la capisci la vivi come una New York mediterranea. Ma è una città nascosta, che devi scoprire», racconta Daniel.
Vivono in un loft tutta luce a Lambrate. Perché le bambine frequentano la scuola inglese di via Rombon. Alejandra ha 9 anni, Roberta 5. Perché quando ti sposti da un Paese
a un altro, la rotta la detta la scuola dei figli, non l’appeal dei quartieri. Lambrate era l’anima popolare di Milano, oggi la capiscono più gli stranieri che quelli che ci sono nati. «Mi ricorda il Poblenou di Barcellona, zona giovane ma con la filosofia del piccolo pueblo, che si fonda alla realtà operaia di qualche decennio fa. Le scuole di design di fianco alla cascina. Milano sta riscoprendo l’identità di quartiere, una cosa molto spagnola». Daniel non ha perso l’abitudine (prudente) di parcheggiare la bici in cucina. «Bello che stiano investendo per unire il puzzle di piste ciclabili». A lavorare va coi mezzi. «E mi stupisco quando vedo la dipendenza dall’auto dei miei colleghi. Quando si mette mano all’arredo urbano, la gente si preoccupa dove parcheggiare la macchina. Noi da qui andiamo in centro a piedi con le bambine. Però mi ha sorpreso quanto ai milanesi piaccia stare in terrazza, in generale all’aperto».
Sandra fa la traduttrice. «E fatico a trovare un impiego part time. Lavorare mezza giornata sembra sia vissuta come una sconfitta. Lavorare da casa non ti aiuta a integrarti», dice. Così le amiche diventano le mamma della scuola. Che sono un po’ come le spagnole, «emotivamente abbondanti». Sandra canta (lirica), balla (il flamenco) e ha lasciato in patria un passato rock. Come Jack Frusciante, è uscita dal gruppo. In Spagna aveva una band: «Ci travestivamo da supereroi, sembra passata una vita». Daniel frequenta soprattutto scrittori e giornalisti, quasi tutti italiani. Tifa Espanyol («il 10 dicembre vado a tifare Inter contro il Barcellona»). Della loro Spagna a Milano c’è solo La Tienda de Juan, una gastronomia in via Tadino dove comprare soprattutto i vini. «Barcellona è una città satura — continua Daniel —. Milano deve evitare quel rischio, di trasformarsi in parco giochi». C’è stata un’età dorata per Barcellona. Più o meno sulla scia delle Olimpiadi del ’92. Quando vagonate di milanesi si spostarono a mangiare tapas e frequentare le università catalane. «Era un incrocio di culture, ora invece è la città della rivolta indipendentista. Mi intristisce vedere i miei amici schierati e tante famiglie divise. Io sono nato a Barcellona, ma sono figlio di una irlandese e di uno spagnolo non catalano. Mia moglie ha vissuto negli Stati Uniti e in Germania. Io mi sento europeo, ora un po’ anche milanese».