I «non ricordo» dei testimoni di ’ndrangheta
Como, il camionista ucciso nel 2008. Omertà in aula, il magistrato si spazientisce
«Lei a quanti omicidi ha assistito? Vuole far credere che non ricorda cosa ha visto quel giorno?». Tribunale di Como, processo per l’omicidio di Franco Mancuso, ucciso nel 2008. Una esecuzione in odore di ’ndrangheta. Sfilano i testimoni, Cecilia Vassena, magistrato della Direzione distrettuale antimafia, si spazientisce.
«Scusi, lei a quanti omicidi
COMO ha assistito? E vuole farmi credere che non si ricorda cosa ha visto e fatto quel giorno e che non ha più parlato del delitto?». Le domande del magistrato della Direzione distrettuale antimafia Cecilia Vassena, nell’aula della Corte d’Assise del Tribunale di Como, sbattono contro un muro di «non so», «non ricordo», «non ho visto», «era solo una conoscenza da bar, al più giocavamo a carte».
La giornata che il magistrato vuole ricostruire è quella dell’8 agosto 2008 quando, in un bar di Bulgorello, frazione di Cadorago nel Comasco, è stato ucciso Franco Mancuso, autotrasportatore di 35 anni, padre di tre figli, residente con la famiglia a Caslino al Piano. Quel pomeriggio d’estate stava giocando a carte al bar Arcobaleno quando un uomo con in testa un casco integrale è entrato nel locale e lo ha freddato con tre colpi di pistola. Un’esecuzione con modalità tipiche di un agguato mafioso. Dieci anni dopo, nel gennaio scorso, grazie anche alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, sono stati arrestati Bartolomeo Iaconis, 60enne originario di Giffone in provincia di Reggio Calabria, e Luciano Rullo, 51enne di Como, ritenuti il mandante e l’esecutore materiale del delitto. Per l’accusa, Mancuso è stato ucciso perché aveva osato offendere pubblicamente, durante una lite, proprio Iaconis. Mancuso è stato freddato davanti ad almeno una decina di persone. Ieri, in aula sono sfilati i testimoni dell’omicidio. Tutti erano a pochi metri dalla vittima, almeno quattro erano al tavolino con il 35enne. Ma alle domande del magistrato antimafia hanno continuato a fornire risposte vaghe e lacunose. Lontano dall’Assise di Como i due imputati, collegati in videoconferenza rispettivamente dal carcere di Terni, in Umbria, e di Asti, in Piemonte, e rappresentati dai legali Maurizio Gandolfi e Jacopo Cappetta.«Ho sentito dei colpi tipo dei petardi, mi sono voltato, ho visto una persona che ritraeva la mano e poi usciva. Ero sotto shock, d’istinto sono uscito e sono andato a casa». A parlare è Giovanni Sciacca, calabrese di Giffone, figlio di Filippo, in carcere nell’ambito dell’operazione «Insubria» che ha smantellato le locali di ‘ndrangheta tra Como e Lecco. Dopo il delitto è partito per la Calabria e solo il 25 agosto, chiamato dai carabinieri, si è presentato per essere sentito dagli investigatori. «Se mi sono chiesto perché lo avessero ucciso? — ha detto al magistrato —. Per un gesto simile sicuramente devi aver fatto qualcosa, ma non so certo io cosa». Giuseppe Puglisi arriva in tribunale a Como dal carcere, dove è detenuto, sempre per l’operazione «Insubria». Anche la sua testimonianza è farcita di «non ricordo». Come quella di Luigi Valenzisi: «Ero seduto lì, poi tutti si sono alzati e mi sono alzato anch’io e sono uscito», dice al magistrato antimafia, che non nasconde il disappunto e incalza il testimone: «Non ci credo che non si ricordi».
Parole che risuonano spesso nell’aula della Corte d’Assise di Como. Nell’aprile del 2015, quando sono ripartite le indagini sul delitto Mancuso, nel bar di Bulgorello sono arrivati i carabinieri del Ris. Uno dopo l’altro, i testimoni negano di aver saputo dell’ispezione e di aver parlato dei possibili sviluppi dell’inchiesta. Un altro degli elementi contestati da Cecilia Vassena: «Conosce il titolare del locale e ha continuato a frequentare il bar. Tutto il paese avrà parlato dell’arrivo del Ris, non credo affatto che non abbia saputo nulla e non ne abbia parlato con familiari e amici», ha ripetuto il magistrato.
Rappresentata dal legale Giuseppe Guanziroli, si è costituita parte civile la vedova di Franco Mancuso, Teresa Caporsoli, madre dei suoi figli. «Non ci speravo più dopo tanti anni — ha detto alla prima udienza —. Speriamo almeno che la legge sia dalla nostra parte, che sia fatta giustizia». Sono una settantina le persone che dovranno comparire come testimoni, tra due settimane la nuova udienza.