«Bernhard sono io»
Orsini torna al Piccolo con il suo cavallo di battaglia «Dopo 30 anni non è più una recita, è un’emozione»
Umberto Orsini è la prova che se il tempo segna la bellezza, nulla può sul fascino e la passione. A 85 anni il grande attore, da oltre mezzo secolo protagonista di teatro, cinema e tv, prediletto da registi come Visconti e Ronconi, Fellini e Zeffirelli, prosegue la sua carriera di seduttore di platee, senza perdere una sera. «Anzi, il giorno di riposo un po’ mi spiazza, se potessi reciterei anche di lunedì», confessa lui, da domani al Piccolo Teatro Grassi con «Il nipote di Wittgenstein», dal romanzo di Thomas Bernhard sulla strana amicizia che lo legò a Paul Wittgenstein, nipote del celebre filosofo Ludwig. Spettacolo per attore solista, adattamento e regia di Patrick Guinand, che Orsini porta in scena dal ‘92 e gli è valso nel 2001 il Premio Ubu come miglior interprete.
Da quasi trent’anni indossa i panni dello scrittore austriaco. Come è mutato nel frattempo il suo rapporto con lui?
«Lo spettacolo è rimasto lo stesso, stessi mobili severi, una poltrona, un sofà di gusto Biedermeier... Con il tempo si è aggiunta la presenza di una donna (Elisabetta Piccolomini) ascoltatrice silenziosa della storia. Quello che c’è di cambiato sono io. Se prima “recitavo” Bernhard, adesso “sono” Bernhard. Prima la preoccupazione era modulare con precisione tecnica l’andamento della frase bernhardiana, i suoi scatti esaperati, il magma ininterrotto di parole, pensieri, ricordi, dove si intrecciano vita e morte, cinismo e solitudine. Ora, che in scena sono lui e insieme me stesso, c’è più posto per l’umanità e per l’emozione, che spesso mi attanaglia».
Bernhard e Paul Wittgenstein erano ricoverati nello stesso ospedale: un’amicizia o un incontro tra sofferenze?
«Difficile stabilirne il confine. Il primo era afflitto da malattia polmonare, il secondo da malattia mentale. Bizzarro e intelligente, Paul era considerato un diverso, un disturbante, fuori da ogni norma di quella borghesia viennese ipocrita che Bernard detestava con tutte le sue forze. Nella pazzia di Paul Thomas si riconosceva. Solo che lui sapeva dominarla con la scrittura, mentre Paul la metteva in pratica. Alla fine credo sia stato lo struggente incontro di due solitudini. La follia e la morte sono state le due grandi ossessioni di Bernhard».
Come cogliere l’anima di due caratteri così estremi?
«Di amici pazzi ne ho avuti tanti... E visto che un attore ruba sempre, direi che per Paul ho rubato a quell’attore straordinario che era Gianni Santuccio, così folle e affascinante che non potevi staccare gli occhi. Quanto a Bernhard, il modello è stato Visconti. Con la sua personalità fortissima, la sua durezza, la sua eleganza. La giacca che indosso in scena l’aveva scelta lui, un regalo durante le prove di
Vecchi tempi di Pinter. Luchino era già molto malato, per non affaticarlo, Valentina Cortese, Adriana Asti e io andavamo a fare le prove a casa sua. L’ultima volta che ci siamo visti aveva sulle ginocchia,
La Recherche di Proust. Lo leggeva e rileggeva da 40 anni».
E lei, che farà dopo Wittgenstein?
«Riprenderò Il costruttore
Solness di Ibsen E poi vorrei rifare da qualche parte A proposito di gatti, un recitalomaggio al mio micio di pelo rosso, costruito su poesie di gattari illustri come Trilussa e Baudelaire, Rembaud e T.S. Eliot... Cerco teatro con vocazione felina. Il lunedì sono sempre libero».
Infaticabile Non sono mai stanco Anzi, il giorno di riposo un po’ mi spiazza: valuto offerte per il lunedì sera