Burocrazia e avvocati «Incubo passaporto» per gli artisti stranieri
Decreto flussi, l’odissea di cantanti e orchestrali La consulente: troppi cavilli, così saltano gli ingaggi
Sul palco ricevono applausi e fiori. Ma all’ufficio immigrazione della questura, per ottenere un permesso di soggiorno come «lavoratori autonomi» devono affrontare trafile complicate e kafkiane. Ci è passato anche qualcuno che sta lavorando alla Prima di sabato. Il mondo dell’opera lirica e della musica classica è cosmopolita, a tenori e soprano i teatri chiedono il talento, non il passaporto. Ma alle frontiere succede esattamente il contrario. E considerando che anche il Conservatorio «Verdi» e l’Accademia della Scala sono sempre più frequentati da giovani provenienti da Giappone, Corea, Russia, Azerbaigian, Georgia, Canada e Turchia, esiste ormai un’ampia casistica di artisti che hanno dovuto affidarsi a un avvocato per continuare a esibirsi sul suolo italiano. «Abbiamo iniziato a occuparci di cantanti e musicisti una dozzina di anni fa — racconta Irene Pavlidi, consulente legale nel team dello Studio Incipit — e nel tempo abbiamo visto aumentare il loro numero. Spesso si tratta di persone che hanno scelto l’Italia e Milano come seconda casa o che si sono formate nelle nostre grandi accademie».
L’impianto normativo che governa l’immigrazione è complicato e pieno di rigidità. Un primo ostacolo, per esempio, lo pone il decreto flussi «in base al quale, in tutto il 2019, possono ottenere un permesso da lavoro autonomo 2.419 persone, compresi imprenditori, liberi professionisti e investitori — spiega Irene Pavlidi —. Non uno di più». E l’asticella è alta anche per le garanzie di reddito e contratto richieste agli artisti che bussano ai nostri confini. «Ma non tutti i teatri riconoscono certi rapporti di lavoro, e poi spesso gli artisti sono chiamati a esibirsi in città diverse, e allora bisogna mettere insieme un dossier che ricostruisca tutto».
Il segreto professionale impedisce alla consulente legale di fare nomi, ma assicura che prigionieri nel labirinto sono rimasti anche artisti importanti e famosi, protagonisti proprio delle Prime scaligere. Come quel tenore che fu bloccato dalla nostra ambasciata nel suo Paese fino a quando l’ambasciatore lo vide sul palco per un concerto in onore del primo ministro. «La nostra diplomazia ha 120 giorni di tempo per rispondere a una richiesta di visto per lavoro autonomo, ma questo può significare la perdita di tanti ingaggi, i teatri non aspettano così a lungo», aggiunge Pavlidi. Un altro caso ricorrente riguarda artisti che, dopo aver ottenuto il diploma a Milano, trovano lavoro presso i nostri teatri. «La legge prevede che la conversione del permesso da studio a lavoro avvenga prima della scadenza, ma molti non lo sanno e sono costretti a lasciare l’Italia», racconta Irene Pavlidi, subito dopo aver ricevuto dall’areoporto la telefonata di una cantante rimasta impigliata proprio in questa trappola. È capitato anche a Jin Won Chung, detto Matteo, baritono coreano di 32 anni. Inizia a studiare alla «Verdi» a 18 anni, si diploma e torna in patria per il servizio militare. «Consegnai il mio visto alla dogana di Fiumicino — racconta». Ma quando viene ingaggiato nella «sua» Milano, ottenere un nuovo permesso di soggiorno si rivela molto complicato. «Alla fine è andato tutto bene — commenta filosoficamente lui, nel suo italiano perfetto — del resto le regole sono queste e anche gli artisti sono esseri umani come gli altri».
Le nazionalità Molti i giovani talenti da Giappone, Corea, Russia, Georgia, Canada e Turchia