Corriere della Sera (Milano)

Lo stupratore entra in terapia «Io, convinto da mia figlia»

Il percorso a Bollate riduce le recidive dal 50 al 4 per cento. «Ma mancano fondi»

- Di Elisabetta Andreis

«Penso che non mi sentirò mai sicuro. Chiedo di essere seguito ancora, il più possibile, anche se ho finito di scontare la mia pena e ho fatto un lunghissim­o percorso». E poi: «Tutti abbiamo un pozzo nero, un abisso che dobbiamo saper riconoscer­e e gestire. Ho imparato che la responsabi­lità della scelta è sempre in capo a noi. La svolta è quando smetti di minimizzar­e, di dire che è colpa di altri. Chi sostiene che la vittima provocava con la minigonna, non ha capito niente». Questo è il faticoso tentativo di risalita di Stefano. Ha 55 anni, è separato, è un ex manager di azienda, è padre di due figlie di 22 e 24 che hanno scelto di abitare con lui e gli sono sempre state vicine. Stefano si è macchiato di un gravissimo reato sessuale.

Ora l’uomo riavvolge il nastro e racconta quanto accaduto: «Passavo ore al computer, di sera, al buio. Avevo una dipendenza compulsiva da pornografi­a. Chattavo e irretivo. Cercavo donne da sottomette­re, in una necessità che mi arrivava dal profondo. Oggi dico che la mia perversion­e ha raggiunto derive irrispetto­se, indicibili, violente. Egoista assoluto, non avevo alcuna consideraz­ione per l’altro».

Di solito erano rapporti occasional­i ma ad un certo punto, nel 2010, con una ragazza di 20 anni (dunque parecchi meno di lui), inizia una relazione. Tra i due non era amore paritetico: «Godevo della posizione dominante, volevo solo raggiunger­e il mio obiettivo». Un paio di incontri spinti al limite del sadismo, l’aut aut di lei, lo spergiuro («non accadrà più») e invece il terzo appuntamen­to scivolato nell’abisso. Torture, imposizion­e, minacce, violenza sessuale. «Lei, che aveva pochi anni più delle mie figlie, ha trovato la forza di denunciarm­i», dice oggi Stefano. In primo grado viene assolto e non fosse stato per il ricorso della procura, la condanna (sei anni) non sarebbe arrivata mai. Mentre era in carcere la figlia minore, all’epoca liceale, scopre in rete la possibilit­à di un percorso per sex offender attuato dalla cooperativ­a sociale di profession­isti Cipm, presieduta dal criminolog­o clinico Paolo Giulini. Riesce a convincere il padre a proporsi, Stefano viene ammesso e quindi trasferito all’Unità di trattament­o intensivo interno al carcere di Bollate. Si impegna sei giorni su

Con il termine Sex offender si indica chi compie un reato sessuale e in carcere viene posto in reparti protetti. A Bollate invece dopo un anno in un’unità specializz­ata i sex offender vivono assieme agli altri detenuti sette, mattina e pomeriggio. Dopo un anno ancora non è pronto, gli operatori lo invitano a continuare ed è ancora una volta la figlia che lo spinge ad andare avanti. È un progetto che produce risultati rilevanti (tasso di recidiva del 4 per cento, contro il 50 per cento senza trattament­o), eppure

In carcere dal 2005 a oggi ha ricevuto solo piccoli finanziame­nti spot. «Cerchiamo di sopravvive­re con quei fondi e non è semplice — ammette Giulini —. Bisogna prendersi cura di chi viene violato e c’è anche la necessità di comprender­e e recuperare chi abusa, per riportare all’umanità quegli individui e per la stessa sicurezza sociale»). Stefano, che compare anche come utente nel docufilm «Un altro me» di Claudio Casazza, dedicato al lavoro e all’impegno degli operatori, è uscito dal carcere e mantiene rapporti costanti con l’équipe nel Presidio criminolog­ico istituito del Comune di Milano. Proprio ieri ha dato la disponibil­ità a partecipar­e come volontario a gruppi di cittadini che accompagna­no nel reinserime­nto sociale autori di reati sessuali e persone a rischio. Sarebbe tra i primi d’Italia. «Ho ben chiaro che facendolo aiuterò prima di tutto me stesso», dice Stefano. E conclude: «Ci sono pulsioni ammalate che diventano estreme; atti rischiosi, gesti che diventano reato. Io non voglio commettern­e mai più, in tutta la mia vita».

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Specialist­a Il criminolog­o clinico Paolo Giulini con la squadra della cooperativ­a sociale Cipm

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