«Conta il gioco di squadra E l’età media è di 35 anni»
Il chirurgo: bisogna essere allenati e pronti a tutto
Il lavoro dell’équipe specializzata in trapianti a Niguarda, tra tensioni, riti e motivazioni. Spiega il primario Luciano De Carlis: «Sono fondamentali i giovani e il lavoro di squadra».
Luciano De Carlis ha partecipato alla staffetta nella sala operatoria di Niguarda a Capodanno. Un turno da una decina d’ore, perché in certi casi le pause non sono comprese nel prezzo. È allenato facendo da 40 anni questo mestiere. Da luglio scorso è anche primario della Chirurgia dei Trapianti a Niguarda. In passato ha lavorato a Pittsburgh, Tokyo, Kyoto. Ora qui a livello decisionale passa tutto da lui. «Ma questo, mi creda, più di ogni altro è un lavoro d’équipe. Solo una squadra compatta e unita può reggere certi ritmi e rispondere a certe emergenze. Ogni caso fa storia a sé. E ogni volta tocca organizzarsi in un tempo strettissimo».
Fa trapianti dal 1982… «In questi anni, il volume di interventi è cambiato in modo sostanziale. Si è sviluppata una certa apertura culturale nel Paese. E le strutture, soprattutto a Milano, si sono adeguate. Il vero problema resta sempre il tempo, sapere convivere e gestire l’occasionalità. Il flusso delle donazioni è molto irregolare. Può succedere di restare fermi per giorni, ma poi di avere 15 organi insieme da smistare per salvare vite umane. Quindi bisogna essere pronti a tutto. Anche se capita in un periodo festivo in cui i turni dell’ospedale sono allentati. E tocca sacrificarsi, raddoppiando l’impegno per riuscire a farcela». C’è una grossa componente organizzativa... «Che cambia da regione a regione. In Italia l’esempio più virtuoso è quello della Toscana. In generale i numeri migliori sono nel Nord Italia, ma non è una questione di mentalità, ma di organizzazione sanitaria che induce e rende possibile una scelta del genere».
Esiste una tendenza?
«Il dato negli ultimi anni si sta stabilizzando. Le medie italiane sono intorno ai 28 donatori su mille abitanti. L’ultimo anno è stato particolarmente positivo. Solo da noi abbiamo fatto 128 trapianti di fegato nell’ultimo anno». Torniamo alla maratona di Capodanno: che clima si vive durante situazioni del genere?
«Un clima particolare, frutto anche delle diverse personalità e professionalità che compongono l’équipe. Io ho 65 anni, ma l’età media della mia squadra è intorno ai 35 anni. È fondamentale per tenere alta la soglia di entusiasmo durante operazioni del genere».
Dicono che il vostro settore stia passando tempi duri, una sorta di crisi di vocazione?
«Penserei questo se dovessi raccontare l’atmosfera che si respira ai congressi. O se dovessi giudicare la strada che uno studente deve percorrere per diventare medico. Le specializzazioni in Italia sono sempre più ingessate. Però poi sul campo il clima che si vive è un altro. Il fuoco sacro si dimostra all’opera, assumendosi responsabilità».
Lei dal 2015 insegna anche Chirurgia all’università Bicocca. Cosa devono capire i giovani che si trova davanti se vogliono intraprendere questa strada?
«Che questo è un mestiere che vive di passione, di motivazioni, di entusiasmo. È un lavoro molto pesante che non si fa per i soldi, che sono pochi, considerati ritmi e responsabilità che ci si carica sulle spalle».
Per questo molti giovani scelgono strade più comode in medicina?
«Qui è un po’ come guidare una Formula 1. Si convive con una soglia di stress molto alta. Sai che non puoi permetterti di sbagliare. Ma ne vale ancora la pena. È quello che dico ai colleghi più giovani ed è quello che vorrei si portassero dietro per fare questa carriera».
Prima linea Crisi di vocazione? È quello che sento ripetere ai congressi In realtà sul campo si respira tutto un altro clima e i giovani mostrano di avere ancora il «fuoco sacro»