Rogge, picchi, salici e cascine la campagna «urbana» comincia al Parco del Ticinello
Quanto può essere alto un pioppo? A guardare quelli in città, tenuti bassi per ragioni di sicurezza, si direbbe al massimo dieci, quindici metri. In campagna, invece, dove sono lasciati liberi di correre verso il cielo, i più forti esemplari di Populus Nigra superano senza sforzo i trenta. Piantati in filari, uno accanto all’altro, risultano maestosi, soprattutto ora che essendo spogli mostrano il grande tronco e il disegno della ramatura. Per vederli, non bisogna uscire da Milano, basta percorrere i sentieri del Parco Agricolo Ticinello, scampolo di territorio agricolo alle spalle di piazzale Abbiategrasso. Chiamarlo parco può quasi apparire improprio, pochi passi e ci si ritrova in un paesaggio rurale che non ha più niente di urbano.
Ad accogliere il visitatore, in fondo al sentiero che costeggia il muro della cascina Campazzo, due magnifici Salix Babylonica (Salici piangenti). Nudi appaiono diversi, emerge un’architettura complessa, data dall’enorme massa di rami penduli, lunghi e sottili, protesi verso terra. L’avventura comincia, si cammina circondati da campi, con il filo costante dell’acqua, che scorre in piccoli canali laterali, e come colonna sonora un intercalare continuo di cinguettii, fischi e trilli. Un airone cinerino si alza in volo, sui rami di roverella plana una cinciallegra (capino nero con macchie bianche, piumaggio del ventre giallo), i più fortunati riusciranno a scorgere anche il picchio verde, che predilige gli alberi secchi, su cui martella con veemenza. Lungo le rogge crescono canne palustri e tife, piante dal lungo stelo che termina in una spiga marrone di forma tubolare, con i semi che assomigliano a batuffoli di cotone pronti a liberarsi nell’acqua.
Parco di pianura, da quadro ottocentesco. «Milano è stata per secoli città agricola, circondata da una fascia coltivata, venendo al parco Ticinello si riesce a immaginare come doveva essere», racconta Manuel Bellarosa, giardiniere condotto di Italia Nostra. Che avverte, «è un mondo selvatico, a tratti anche magico, ma solo per chi è pronto a lasciarsi incantare, non è natura appariscente». Bellarosa consiglia di osservare le cortecce coperte di muschio e i tronchi colonizzati dall’edera, i rami più giovani dei salici ancora gialli e quelli rosso acceso dei Cornus sanguinea e di camminare senza meta, da un campo all’altro. Così si raggiunge l’arbusteto (alberi di Biancospino, Opalo, Frangola, Lantana, piantumati vicini, come effetto scenografico ma anche per offrire un luogo di stop-over agli uccelli di passo), poi si prosegue verso la zona umida (con lo stagno in parte ghiacciato), e da lì ci si inoltra nel bosco. L’acqua è ancora vicina, ogni tanto si scopre una chiusa antica, si attraversa un ponticello di pietra. Una magnolia, un fico, un nespolo, qualche lauro e due abetini, specie che migrano dai balconi delle case vicine al parco. E di colpo si è di nuovo in città.