«Misericordia» al Piccolo Teatro Solidarietà e amore incondizionato nella «famiglia» di Emma Dante
Piccolo Teatro Grassi Nel nuovo «Misericordia» Emma Dante racconta (in siciliano e barese) l’amore in una famiglia atipica
«Felice di essere tornata a casa». E in effetti, se nella sua amata-odiata Palermo, dove vive e crea i suoi spettacoli, fa ancora fatica ad avere i riconoscimenti che merita, a Milano le porte si aprirono subito per Emma Dante. Fin da quel «mpalermu», con cui vinse il Premio Scenario nel 2001, che le valse una sorta di adozione da parte dell’allora Crt, fino agli spettacoli più recenti ospitati o coprodotti, come quest’ultimo, dal Piccolo Teatro («Le sorelle Macaluso», che ad aprile sarà un film, «La scortecata», «Bestie di scena»). E c’è un filo sottile che lega «Misericordia», al debutto al Teatro Grassi martedì, con alcuni suoi precedenti titoli come «Carnezzeria» e «Vita mia»: la famiglia, con le sue tragedie, ma anche leggerezza e vitalità. Il tutto qui stemperato dalla misericordia del titolo, quel sentimento concreto, che ti fa aiutare chi ha bisogno. Anna, Nuzza e Bettina sono poverissime, vivono in un tugurio, si arrabattano facendo la maglia di giorno sedute davanti alla porta di casa e battendo alla sera. Ma non esitano ad accogliere e a crescere Arturo, «’u picciutteddu», nato storpiato dai calci e pugni che Lucia, morta di parto, si era presa in gravidanza dal suo compagno. Uno dei tanti uomini violenti che costellano la vita di queste donne, un falegname soprannominato Geppetto, indegno padre di quel bambino dalle rigide movenze, che ricorda Pinocchio.
Da dove nasce l’ispirazione per questo spettacolo?
«Tempo fa, in una corsia di ospedale, vidi un bambino autistico che girava vorticosamente su se stesso e rideva. Ma non ho voluto fare uno spettacolo a tema sull’autismo, sulla maternità o sulle donne, etichette che mi appiccicano addosso e di cui sono un po’ stufa. In “Misericordia” racconto di una famiglia disgraziata dove ciascuno, pur senza legami di sangue, si prende cura dell’altro».
È questa la misericordia? «Sì, non certo la scena a cui ho assistito pochi giorni fa in via Torino: freddo, un ragazzo sul marciapiede, coperto alla bell’e meglio, con accanto il suo “canuzzo”. Fra loro un cartello, “Ho fame”. Passano due giovani ben vestiti e lui, osservando la scena, sussurra a lei: “Mangia il cane”. Disprezzo, fastidio, intolleranza. Non così per le tre donne protagoniste di “Misericordia” che, nell’accogliere e crescere questo ragazzino “difettoso”, mostrano una capacità profonda e inesauribile di amore, nonostante la miseria e il degrado in cui vivono».
Come è costruito lo spettacolo?
«Quattro sedioline di legno pieghevoli, brandelli di oggetti, vestiti e giocattoli: “munnezza”, l’unico mondo che si possono permettere queste donne, fragili e in balia delle prevaricazioni maschili. Il loro tugurio è un ventre oscuro e terribile, anche se ha la vita dentro».
In siciliano e barese. Il dialetto creerà difficoltà?
«Non faccio spettacoli di intrattenimento. Però sono sicura che, se il pubblico si lascerà andare, comprenderà tutto, se non attraverso la parola, sicuramente grazie alla fisicità e al linguaggio del corpo dei miei attori (le «fedelissime» Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, più Simone Zambelli, ndr). Ogni spettatore si porterà a casa quel che più lo colpirà se, con gesto misericordioso, si prenderà cura di questo spettacolo, che è simile a un parto. È più importante accogliere che comprendere».