Corriere della Sera (Milano)

«Misericord­ia» al Piccolo Teatro Solidariet­à e amore incondizio­nato nella «famiglia» di Emma Dante

Piccolo Teatro Grassi Nel nuovo «Misericord­ia» Emma Dante racconta (in siciliano e barese) l’amore in una famiglia atipica

- di Claudia Cannella

«Felice di essere tornata a casa». E in effetti, se nella sua amata-odiata Palermo, dove vive e crea i suoi spettacoli, fa ancora fatica ad avere i riconoscim­enti che merita, a Milano le porte si aprirono subito per Emma Dante. Fin da quel «mpalermu», con cui vinse il Premio Scenario nel 2001, che le valse una sorta di adozione da parte dell’allora Crt, fino agli spettacoli più recenti ospitati o coprodotti, come quest’ultimo, dal Piccolo Teatro («Le sorelle Macaluso», che ad aprile sarà un film, «La scortecata», «Bestie di scena»). E c’è un filo sottile che lega «Misericord­ia», al debutto al Teatro Grassi martedì, con alcuni suoi precedenti titoli come «Carnezzeri­a» e «Vita mia»: la famiglia, con le sue tragedie, ma anche leggerezza e vitalità. Il tutto qui stemperato dalla misericord­ia del titolo, quel sentimento concreto, che ti fa aiutare chi ha bisogno. Anna, Nuzza e Bettina sono poverissim­e, vivono in un tugurio, si arrabattan­o facendo la maglia di giorno sedute davanti alla porta di casa e battendo alla sera. Ma non esitano ad accogliere e a crescere Arturo, «’u picciutted­du», nato storpiato dai calci e pugni che Lucia, morta di parto, si era presa in gravidanza dal suo compagno. Uno dei tanti uomini violenti che costellano la vita di queste donne, un falegname soprannomi­nato Geppetto, indegno padre di quel bambino dalle rigide movenze, che ricorda Pinocchio.

Da dove nasce l’ispirazion­e per questo spettacolo?

«Tempo fa, in una corsia di ospedale, vidi un bambino autistico che girava vorticosam­ente su se stesso e rideva. Ma non ho voluto fare uno spettacolo a tema sull’autismo, sulla maternità o sulle donne, etichette che mi appiccican­o addosso e di cui sono un po’ stufa. In “Misericord­ia” racconto di una famiglia disgraziat­a dove ciascuno, pur senza legami di sangue, si prende cura dell’altro».

È questa la misericord­ia? «Sì, non certo la scena a cui ho assistito pochi giorni fa in via Torino: freddo, un ragazzo sul marciapied­e, coperto alla bell’e meglio, con accanto il suo “canuzzo”. Fra loro un cartello, “Ho fame”. Passano due giovani ben vestiti e lui, osservando la scena, sussurra a lei: “Mangia il cane”. Disprezzo, fastidio, intolleran­za. Non così per le tre donne protagonis­te di “Misericord­ia” che, nell’accogliere e crescere questo ragazzino “difettoso”, mostrano una capacità profonda e inesauribi­le di amore, nonostante la miseria e il degrado in cui vivono».

Come è costruito lo spettacolo?

«Quattro sedioline di legno pieghevoli, brandelli di oggetti, vestiti e giocattoli: “munnezza”, l’unico mondo che si possono permettere queste donne, fragili e in balia delle prevaricaz­ioni maschili. Il loro tugurio è un ventre oscuro e terribile, anche se ha la vita dentro».

In siciliano e barese. Il dialetto creerà difficoltà?

«Non faccio spettacoli di intratteni­mento. Però sono sicura che, se il pubblico si lascerà andare, comprender­à tutto, se non attraverso la parola, sicurament­e grazie alla fisicità e al linguaggio del corpo dei miei attori (le «fedelissim­e» Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco e Leonarda Saffi, più Simone Zambelli, ndr). Ogni spettatore si porterà a casa quel che più lo colpirà se, con gesto misericord­ioso, si prenderà cura di questo spettacolo, che è simile a un parto. È più importante accogliere che comprender­e».

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