Dynasty Carpi, tre generazioni d’artisti
Il diario di Gusen messo in scena dalla nipote di Aldo. Con musiche di papà Fiorenzo
Pittore e insegnante all’Accademia di Brera, scomparso nel 1973, Aldo Carpi fu uno dei pochi sopravvissuti al campo di sterminio di Gusen dove fu rinchiuso 14 mesi fino al luglio del ‘45. Ebreo convertito alla fede cattolica, fu arrestato dopo la denuncia di un collega e deportato. Si salvò dal lager perché gli ufficiali nazisti gli chiedevano ritratti. A Gusen riuscì a scrivere un diario, appunti clandestini e lettere alla moglie Maria. Frammenti di vita che la nipote Martina Carpi porta in scena al Teatro Parenti il 20 e 21 gennaio nello spettacolo «Al di là del muro». In scena le letture sono alternate a brani musicali di Fiorenzo Carpi, primogenito di Aldo.
Le prime lettere le scrisse sul retro di foglietti strappati da un ricettario nell’infermeria di Gusen. Campo di sterminio destinato agli irriducibili, ai nemici più risoluti del Terzo Reich. Difatti solo il 2% dei detenuti ne uscì vivo. Tra questi Aldo Carpi, pittore e docente all’Accademia di Brera, rinchiuso lì dentro per oltre 14 mesi, dal 7 maggio del 1944 al 22 luglio del 1945. «In realtà la prigionia fu più lunga — ricorda Martina Carpi, una delle nipoti —. Mio nonno fu arrestato il 23 gennaio del ’44 a Mondonico, in Brianza, dove era sfollato con la moglie Maria e i loro sei figli, Fiorenzo, Pinin, Giovanna, Cioni, Paolo e Pietro».
Aldo Carpi allora aveva 57 anni e insegnava a Brera. A denunciarlo ai fascisti fu un collega, che lo accusò di aver difeso un’alunna ebrea oggetto di attacchi di compagni e professori. Carpi stesso era ebreo, anche se convertito alla fede cattolica. Ma quella «J» di colore blu segnata sul fascicolo della denuncia alludeva alla sua origine, «jude», ebreo. Il marchio della condanna che da San Vittore, lo fa deportare prima a Mauthausen, poi a Gusen.
Dove viene destinato al lavoro nelle cave, a spaccare pietre e caricarle sui treni. «Non ne aveva proprio il fisico, sarebbe sicuramente morto in breve — precisa Martina —. A salvarlo fu il suo talento artistico». Si sparse la voce che era pittore, e i nazisti del campo cominciarono a chiedergli dei ritratti. Di loro stessi, ma anche di mogli e fidanzate. In cambio aveva diritto a qualche razione supplementare di cibo, spesso condiviso con gli altri prigionieri. E visto che i suoi disegni piacevano, gli ordinarono di dipingere anche altri soggetti, «quello che vedeva». Ma dal recinto del campo spuntava solo la cima di qualche albero. E allora bisognava andare di fantasia e di memoria, «Al di là del Muro». Che oggi è il titolo dello spettacolo in scena il 20 e 21 gennaio al Franco Parenti, ideato e interpretato dalla nipote Martina sulle tracce di quel «Diario di Gusen», unico documento mai uscito da un lager, vergato da Carpi in modo fortunoso su pezzetti di carta poi nascosti nel camicione da lavoro e infine impacchettati nella tela a righe di una vecchia divisa da detenuto. Appunti clandestini, lettere alla moglie mai spedite. Cara Maria… «Ho freddo e sono stanco. Eppure oggi mi venivano in mente le più belle melodie classiche sentite a casa, e cantavo. Quando si canta si evade e si dimentica». Ma poi c’è l’orrore quotidiano. «I detriti della cremazione trasportati nell’aria come animelle volanti che dove si posavano non si potevano più togliere». A dare conforto le piccole cose, un mazzolino di fiori gialli sul tavolo anatomico, la gioia di fumare la pipa con un compagno, il guardare il cielo «Che a Gusen è più bello che a Mauthausen, l’aria chiara e luminosa».
Pennellate di colore a spezzare i grigi e i neri del campo. Frammenti di vita che Martina evocherà in teatro alternandoli con brani musicali di suo padre, Fiorenzo Carpi, primogenito di Aldo, compositore di fama per il teatro di Strehler e di Fo, per il cinema di Comencini, da Incompreso a Pinocchio a La storia.
Perché i Carpi sono una famiglia d’arte che molto hanno dato a Milano. Di bellezza e umanità. A cominciare da Aldo, che rientrato a casa dopo la Liberazione, fu eletto per
acclamazione, a furor di critici, modelle e bidelli, direttore dell’Accademia di Brera. A lui si devono le vetrate della basilica di San Simpliciano e alcune del Duomo. Quanto ai suoi figli, oltre al musicista Fiorenzo, Pinin è stato pittore e scrittore per bambini, Cioni artista concettuale, Giovanna collaboratrice di Marcello Abbado al Conservatorio, Pietro direttore di Radiotre e anima di una comunità per bimbi abbandonati. Quanto all’ultimo, Paolo, catturato nel ’44 dalle SS, fu ucciso a 17 anni nel campo di sterminio di GrossRosen.
Aldo si era salvato, suo figlio no. I foglietti clandestini raccolti da Pinin nel Diario, il padre non li vorrà mai più leggere. Nel presentarne la prima edizione al Circolo Turati, l’architetto Ludovico Belgiojoso, che con Aldo aveva condiviso la detenzione a Gusen, ricordò che «il posto dove stava Carpi nel campo era il luogo dove tutti gli italiani andavano a cercare aiuto quand’erano disperati». Quelle lettere mai spedite hanno raggiunto tanti altri cuori. Tra cui quello di Eduardo De Filippo, che così scrisse a Carpi: «La pazienza, la tenerezza, la bontà, l’umanità di cui ogni sua pagina, ogni suo disegno, sono impregnati costituiscono una lezione per tutti. Ma quello che più ammiro è la mancanza dell’odio cieco. In lei c’è sempre il desiderio di capire il perché di quel che accade, sia della cattiveria sia della bontà. C’è soprattutto l’assenza di violenza che è la condanna più completa, più agghiacciante, della violenza stessa».