L’uomo dei non-cocktail «Creo miscele ispirandomi ai maestri rinascimentali»
Il bartender Amoni: gli ingredienti in base agli occhi del cliente
Gli inizi Al Cap St. Martin di via De Amicis ho avuto la fortuna di servire personaggi come Adriano Celentano, Claudia Mori e tanti altri artisti famosi Oltre a miscelare, ho imparato a capire la vita
L’unico sgarro lo ha fatto per Leonardo, Michelangelo, Raffaello e per gli artisti del Rinascimento. L’uomo dei «non–cocktail», così conosciuto perché non dà mai (o quasi) un nome alle sue preparazioni, spiega: «Miscelo gli ingredienti al momento, in base a quello che vedo negli occhi di chi siede al banco, poi porgo il bicchiere e aspetto l’effetto». Gianluca Amoni, classe 1974, è tra i bartender più famosi e apprezzati di Milano. Pluripremiato, Amoni è tra i miscelatori di bevande più accreditati, con tanto di diploma della Federazione Baristi Italiani. Nel suo locale, il Mixology di via Pio IV, ai nomi classici dei cocktail sostituisce la sua creatività. Nascono allora invenzioni al sentore di mortadella e salumi oppure il drink affumicato con legno, fiamma e fumo che diventa nebbia nel bicchiere: «Per questo mix ho fatto un’eccezione dandogli un nome: “Vecchia Milano”. L’ho dedicato alla tradizione meneghina con un vermouth speciale e profumi che diventano immagini della Milano quando era ancora da bere» Gianluca Amoni ha una storia di sport alle spalle: «A 14 anni pattinavo sul ghiaccio, ero allenatore di hockey per la Nazionale juniores». Una promettente carriera interrotta da un infortunio. Abbandona le piste di ghiaccio e cambia vita. Dopo la scuola inizia a frequentare il laboratorio di pasticceria di suo zio Emanuele: «È stato un secondo padre per me, ho imparato la severità e le dosi. A far dolci non c’è errore, qualche grammo in più o in meno rovina tutto. E poi i colori, la frutta, l’immagine: la pasticceria è stata la mia vera scuola». Da quel momento Amoni si dedica al bar: «Ho fatto tanta gavetta», ricorda. Gli incontri determinano i primi successi: «Con Miki Del Prete, al Cap St. Martin, è stato un passo avanti: ho servito Celentano, Claudia Mori e gli artisti più famosi. Lì ho imparato, oltre alla miscelazione, a capire la vita. Certe persone lasciano il segno». Oggi, il barista del «non cocktail» ha sposato un pensiero: «Milano è una fucina di idee, di mostre, è la capitale della cultura». Da qui l’amore per i maestri del Rinascimento e lo strappo alla regola di non dare i nomi ai suoi cocktail: «Leonardo da Vinci mi ha ispirato, anzi: ho rubato la sua acqua di rose, che usava per fare il bicchiere dell’ospitalità». Nasce così il cocktail Leonardo, dai colori rosa e dai sapori di quel tempo e poi una serie di ricette ispirate all’epoca: «Ho pensato a Michelangelo, con il bianco e il grigio del marmo delle sue sculture, le sfumature di giallo di Raffaello e i colori e le pennellate del Mantegna». In preparazione il cocktail di Caravaggio e, per il pubblico femminile, quello di Artemisia Gentileschi. «In quel periodo — sottolinea il bartender — le botteghe erano luoghi dove si sperimentava e si insegnava. Anche qui, noi, sperimentiamo: catturiamo prima l’occhio e poi il palato, facendo risaltare i sensi. Mi piace trasmettere la mia esperienza: Alessandro, il mio aiutante, sa già come dosare la fantasia in un bicchiere. I clienti apprezzano, sanno che in questo locale l’arte ha uno spazio e i drink diventano un momento di cultura».
I gesti al banco, decisi ma misurati, fanno la differenza, come la buccia di limone spruzzata sul cocktail e poi accompagnata, in un gesto magico «a sporcare il calice, perché chi esce deve sentire il profumo sulle dita, anche fumando una sigaretta o abbracciando la fidanzata e deve ricordarsi di noi». La differenza tra barman, bartender, mixology? «Nessuna, sono solamente termini in voga. Noi siamo alchimisti».
Leonardo da Vinci «Ho rubato la sua acqua di rose che utilizzava per il bicchiere dell’ospitalità»