Corriere della Sera (Milano)

Sergio Gobbi, il cantastori­e di Chinatown

- di Francesco Cevasco

Ci vuole coraggio, ci vuole molto coraggio. È quello che aveva Sergio Gobbi. Il coraggio di scrivere il libro più pazzo del mondo. Scritto di qua in milanese. E di là, nella pagina a fianco, in inglese. E, perdipiù, in un inglese inciso con il colore verde. Gobbi, era nato lo stesso giorno che, «9 de avril 1931, a Milan se inaugurava el gran Teater Smeraldo». Papà morto in Africa Orientale, fame nella pancia, Martinitt, la guerra, bombardame­nti, «vit d’inferno in d’óna adólescenz­a rubada», tipografo «impressór» con la coscienza sporca «per i milioni de foeui de carta bianca imbrattada de inciòster negher».

Poi con quell’inchiostro nero ha smesso di stampare le parole degli altri e ha scritto le sue. Ne è uscito il libro «Ministori foeura da l’Isóla. A storytelle­r at the Cantine Isola». Sono piccole storie della grande storia di Milano. Quelle storie che Sergio Gobbi raccontava a voce. Andavano a scivolare spesso nella strada che amava di più. Via Paolo Sarpi, l’ombelico di Chinatown. E lì le recitava alle Cantine Isola dove Luca Sarais lo presentava insieme con i suoi vini al mondo: «Non solo milanesi, e sardi, siciliani, calabresi e cinesi, ciprioti, greci, brasiliani, bulgari, polacchi, turchi e tedeschi, norvegesi e islandesi». Anche un suddito del regno di Tonga ha ascoltato felice i racconti di Gobbi. Con quel po’ di recita che i milanesi danno alle parole riusciva a far capire a tutti che un giorno a Chinatown ci fu una — esagerata dal passaparol­a — sommossa, rivolta, rivoluzion­e! Tutto per una multa ingiustame­nte appioppata a una «tosa» cinese. O che e come la fermata del tram «Sarpi-Bramante» diventò «Fermata Pechino» perché quell’arancione numero 12 «lóng cóme la fam» si riempiva di cinesi, si stava in piedi e il mondo si fermava lì: «alla fermata Pechino». O si fermava poco lontano al bar Nacka, inteso come Skoglund il mitico calciatore, ritrovo di interisti dove Walter Chiari andava a fare il provocator­e ai tempi di barbera e champagne (e vodka). Ma il sorriso di Sergio Gobbi a volte si spegneva. Era quando leggeva o recitava a memoria il canto tragico degli studenti morti a Milano durante la seconda guerra mondiale. Diceva «Gorla» e poi si commuoveva al ricordo di tanti bambini morti sotto le bombe. Sussurrand­o in dialetto versi e racconti della vecchia Milano riusciva a far zittire frotte di ragazzi ed ex giovani che — calice in mano — si intrattene­vano con amici e amanti davanti al bancone. «Ricordo il suo stupore per quella magia che si ripeteva nei nostri martedì letterari, “mi stanno anche ad ascoltare”, diceva sbalordito» ricorda Luca Sarais, che gestisce il locale di famiglia. In questo stupore c’è tutto Sergio Gobbi, il poeta del «borg di scigulatt», il «quartiere delle cipolle», poi «degli ortolani»,ora Chinatown. Lui se n’è andato la settimana scorsa, a 89 anni.

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