Nella notte di Milano ai tempi del virus
Viaggio nella città «spenta» senza traffico, pub e discoteche Niente sbandati, ubriachi e spacciatori nelle vie del divertimento ma ressa ai fast food, basket nei campetti e chiamate ai delivery
Da mezzanotte alle sette. Viaggio del Corriere nella notte di Milano ai tempi del virus. Sfide dei ragazzini nei campetti di basket, caffè «introvabili» anche nei locali aperti, enormi angoli della città vuoti per ore a oltranza, deserti i tram, barboni più che mai trincerati sui bus nella paura di chissà quali controlli nei dormitori. Una notte stramba, una notte di consegne a domicilio di cibo senza sosta, di bancarelle ai mercati montate in fretta dagli ambulanti perché c’è grande richiesta di prodotti (da parte dei figli più che dai loro anziani genitori). Lavori in corso, stazioni vuote, turisti in fuga, mascherine, e gli spacciatori che sono spariti.
Saremo complici, non svelando il luogo esatto. C’è una giostra per bimbi che su preghiera delle mamme oppure su ribellione del titolare apre anche se dovrebbe star chiusa, in quanto centro d’aggregazione. Apre e subito dopo si spegne e si nasconde dietro le saracinesche graffitate. Concede giusto un giro. Pare una bisca clandestina quando nell’aria fluttua odore di sbirri in arrivo. Ché qui non si scherza. Apre di solito a metà pomeriggio, la giostra, ci dicono. Dovesse proseguire tutta questa storia, s’inizierà a sconfinare pure di sera. Chissà. Magari anche di notte.
Orario: 2.34. Noto bar di corso Buenos Aires. Uno di quelli che ospita il mondo, la sua fauna, i suoi contrasti, e tira l’alba tirandosi dietro i clienti.
«Un caffè grazie».
«Non possiamo servirli».
«Non lo bevo dentro, mi metto fuori ai tavolini».
«Non possiamo, è appena passata l’annonaria dei vigili, hanno detto di non fare cazzate. Perdoni il termine, ma così ci capiamo. Le propongo questa soluzione: può sedersi e consumare, se facciamo ristorazione non andiamo incontri a casini».
«Va bene, caffé e brioche».
«No, come dire, dobbiamo produrre noi il cibo. Ristorazione, per appunto. Caffé e un toast?».
«Non mi va, il toast».
«Allora niente».
«Prendo il caffé nel bicchiere di cartone e sparisco, giuro».
«Niet, l’annonaria ha detto che...».
Per il caffé, un’obbligata soluzione: la prima area di servizio della tangenziale. Raggiunta superando la chilometrica via Padova, strada che vive sempre. Sui marciapiedi, assenti pure gli ubriachi che si menano e i mezzi morti che camminano e le trans invecchiate e i matti che ululano alla luna. Forse è un errore, un miraggio: quindi, soste a campione, prima o poi sbucherà qualcuno, no? No.
Da mezzanotte alle sette, da martedì a ieri, ottantacinque chilometri in macchina e sei e mezzo a piedi, più un po’ di attese. Milano silenziosa e smaltata: non per altro, girano soltanto i mezzi dell’Amsa. Non è tempo per nessun altro. Non è tempo neanche per gli spacciatori. Han tolto loro discoteche e locali, e quelli sono spariti. La giungla all’esterno dell’«Old Fashion» è un parcheggio per le ruspe che stanno rattoppando l’asfalto. Gli operai imprecano contro un tipo in scooter che vuol passare lo stesso. Si sono abituati bene, lavorano in solitaria da ore meglio che a ferragosto. A ridosso della cancellata del parco Sempione, quattro amici quarantenni testano una macchina fotografica nuova.
«Per scattare cosa?».
«Il vuoto. Quando ricapita?».
Vuoti i ponti dei pusher sul Naviglio pavese:
campo libero, due papere variopinte salgono e scendono le scale, poi sostano in mezzo alla strada con atteggiamento da padrone. Per trovare degli esseri viventi, andiamo in piazzale Accursio. Campo da basket non recintato. «Sai che mi dice mio papà, su ’sto virus?». «Boh, di stare attento».
«Di non prenderlo sennò le busco. Lui ha un’attività in proprio, se s’ammala per colpa mia va a rotoli la famiglia. Ci aiuterà la birra. Passiamo le serate a birra e tiri a canestro, sinceramente non sappiamo dove andare».
Orario: 1.35. Sono dodici, hanno tra i diciotto e i vent’anni, italiani e stranieri, molto educati. Si passano il pallone che nove volte su dieci non arriva neppure al tabellone.
«Sentite, ma uno dove può andare in periodi del genere?»
«Zio, prova al McDonald’s del Portello, rimane aperto fino alle due».
Grande ressa, al McDonald’s. Gli impiegati dovrebbero anche chiudere ma la gente non smette d’arrivare. Vere cene di gruppo. Universitari con dispense che studiano bevendo coca zero. Zero stranieri. Questi sono alle pensiline fuori dalla stazione Centrale, in attesa dei bus per Orio al Serio, e alle partenze di Linate.
Centrale, le 2.25, sedici persone e undici mascherine. Ragazzo francese, zaino sulle spalle, bottiglietta d’acqua in una mano, maniacale rispetto della distanza di sicurezza. «Scappate?».
«Magari. Sarei andato via prima ma non potevo cambiare il biglietto dell’aereo sennò pagavo la penale».
«Non state esagerando?».
«Esageri tu che sei senza mascherina». A Linate, in assenze di mascherine, sciarpe avvolte sul volto come mummie dei passeggeri. Orario: 3.10. Vorrebbero che il tabellone bruciasse le ore che mancano al decollo. Marito alla moglie: «Dai, manca poco». Ovunque, puzza di disinfettante. Fuori dall’ingresso numero 2, l’unico aperto di notte, due romeni parlano male degli italiani. Non hanno una casa e sono a Linate in assenza di soluzioni abitative. In giro hanno raccontato che i barboni, nel timore di chissà quali controlli, se possono evitano i dormitori. Linea 90, le 5.28, prima fermata di viale Tibaldi arrivando da via Meda. Gente cotta e accasciata sui sedili. Una batteria di barboni. Chissà da quanto stanno a bordo. Rumorosi sbadigli coperti dalle mascherine.
Son vuoti anche i tram. Alle 6.28 è vuota pure la stazione ferroviaria di Cadorna. Tornelli immobili come mura. Notte stramba, dall’inizio alla sua fine, dalla fine al suo inizio. Torniamo indietro. Viale Certosa, pizzeria d’asporto «Il faraone». Orario: 1.02. Tre dipendenti. Sudatissimi. Telefonate senza sosta, per ordinare margherite e napoli e patatine fritte (stanno esaurendo le scorte). Consegne a domicilio. Così tanti rider che sembra una corsa ciclistica. Dal «Faraone», un senegalese s’è appisolato sul tavolo. Viene da Roma, deve andare in questura per problemi sui documenti, gli hanno riferito delle code e s’è mosso in anticipo.
Di nuovo in avanti. Piazza Duomo. Orario: 5.42. Un signore davanti all’ingresso. Mascherina. Parla e non si capisce niente.
«Per caso può toglierla un attimo?»
«Sì, ma stia lontano».
«Che le pare di tutta ’sta situazione?» «Sei mai stato l’unico in piazza del Duomo? Sono commosso. Sinceramente: spero duri anni, l’emergenza. Ci si muove che è una meraviglia».
Vuoto corso Como, vuota l’Isola. Ugualmente, assenti gli spacciatori. Non è notte per i balordi, in generale: in sette ore, mai incrociata una pattuglia a forte velocità e sirene. Le macchine vanno così piano che, volendo, potrebbero sorvegliare ogni singolo civico, al cui esterno intanto i custodi ammucchiano i sacchi dell’immondizia. Ne contiamo diciotto in azione, tra corso XXII Marzo, piazza Cinque Giornate, via Larga, corso di Porta Romana. Si puliscono le mani di continuo sui pantaloni.
Viale Giovanni da Cermenate. Orario: 6.23. Bar «Ji Sufen». Ritrovo degli ambulanti, colazione prima di posizionare le bancarelle del mercato. S’alza la nebbia, passano i vigili a controllare eventuali divieti di sosta: han tutti parcheggiato dove dovevano, ed è avanzato posto. Una squadra di egiziani scarica frutta. Veloci, in trance agonistica. Il capo è un ragazzo alto e robusto.
«A vedervi, uno capisce cosa sia davvero la fatica».
«Grazie. Una vitaccia. Peggio: ci alziamo alle due, ma al momento non vedo alternative». «Come vanno gli affari?».
«Siamo di corsa, vogliamo esser pronti per primi, stiamo vendendo bene». «Fanno le scorte di frutta?».
«Le scorte no, però comprano più del solito. Da quanto ho capito è una scelta dei figli, fosse per i loro genitori anziani prenderebbero le solite quantità».
Parco Palestro. Orario: 7.08. Il parco somiglia a una spiaggia d’inverno.
Desolata, elitaria, malinconica, struggente, egoisticamente oppure tragicamente fuori stagione: scegliete voi la definizione.