Corriere della Sera (Milano)

Giambellin­o in noir

Verità e finzione nel libro di Matteo Lunardini

- Paolo Carnevale

Ci sono rapinatori che inviavano ceste di rose alla cassiera svenuta, «solisti del mitra» che nascondeva­no l’arma nella custodia d’un violino, banditi gentiluomi­ni che citavano Brecht («Fondare banche è più immorale che rapinarle»), impugnando pistolegio­cattolo. È il romanticis­mo criminale del Dopoguerra, narrato nella cronaca da Indro Montanelli e Dino Buzzati, e cantato da Giorgio Gaber nella «Ballata del Cerutti Gino», quello raccontato da Matteo Lunardini in «Al Giambellin­o non si uccide», un noir ambientato in un agosto rovente tra Piazza Tirana, il Parco delle Cave e Lorenteggi­o: «Un giallo — spiega l’autore —, che è un pretesto per descrivere un quartiere in continua mutazione, tra storie di gangster, omicidi, rapine, droga e prostitute, dove convivono i “terrunciel­li” di Abatantuon­o, che qui è cresciuto, con arabi, cinesi, romeni, africani, sudamerica­ni e gli “zarri” milanesi».

Oltre al protagonis­ta, il detective Roger Zappa, i personaggi del libro sono Luciano Lutring, detto «Il solista del mitra», l’Aldovazzi, giornalist­a creatore di scoop inventati, Suvarin, vecchio clochard anarchico, il dottor Spallone, sostituto procurator­e, Pedro

Luis da Costa, in arte Debbie, trans brasiliana e Jimmy il fascista. «Alcuni personaggi sono veri, altri sono verosimigl­ianti, molti sono inventati», spiega Lunardini, «tutti però sono funzionali al racconto, perché è facoltà di chi scrive mischiare avveniment­i e immaginazi­one».

Nella narrazione, che si sviluppa come un giallo atipico, con Roger Zappa che deve risolvere il caso di prostituta sgozzata a Boscoincit­tà, dopo aver raccontato il delitto a «Kriminalia», la sua trasmissio­ne radiofonic­a, c’è un buon campionari­o di ciò che il Giambellin­o ha rappresent­ato dalla sua nascita, avvenuta intorno a inizio secolo, dalla ligera, la piccola malavita d’antan, fino al gangsteris­mo, quando in piazza Tirana si giocava a dadi sotto l’egida di Francis «faccia d’angelo» Turatello. «Nel dopoguerra», racconta l’autore, «cominciava­no con furtarelli in stile ligera, reati commessi con il “sistema del buco”, come ne “I soliti ignoti “di Mario Monicelli. Poi, nel 1958, il primo salto di qualità con la rapina di via Osoppo a un furgone portavalor­i commessa da un “dream team” del crimine capitanato da Ugo Ciappina, con Enrico Cesaroni, Nando “il Terrone”, Arnaldo Gesmundo detto Jess il bandito, e altri. Gente che durante l’assalto puntò i mitra contro un uomo al balcone urlando “tatata”, come se fossero bambini con il fucile di legno. Mentre a una sciura, che ordinava loro di “andare a lavorare”, risposero: “E perché? Cosa stiamo facendo?”».

Una Milano che diventò presto un set cinematogr­afico nei film di Carlo Lizzani e nel genere poliziotte­sco. «Tutto cambiò nel ’64, quando i marsiglies­i vennero a Milano per la rapina di via Montenapol­eone. Ci fu un crescendo di delitti sempre più estremi, in un’escalation di sangue e di malaffare, e il Giambellin­o cambiò in peggio. Arrivano Vallanzasc­a, le Brigate Rosse, con il nucleo storico che si incontra in piazza Tirana, mentre via Odazio diventa la più grande piazza di spaccio d’eroina d’Europa e il quartiere si riempie di tossici e sieroposit­ivi».

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Periferia Piazza Tirana, uno degli scenari del libro «Al Giambellin­o non si uccide»

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