Giambellino in noir
Verità e finzione nel libro di Matteo Lunardini
Ci sono rapinatori che inviavano ceste di rose alla cassiera svenuta, «solisti del mitra» che nascondevano l’arma nella custodia d’un violino, banditi gentiluomini che citavano Brecht («Fondare banche è più immorale che rapinarle»), impugnando pistolegiocattolo. È il romanticismo criminale del Dopoguerra, narrato nella cronaca da Indro Montanelli e Dino Buzzati, e cantato da Giorgio Gaber nella «Ballata del Cerutti Gino», quello raccontato da Matteo Lunardini in «Al Giambellino non si uccide», un noir ambientato in un agosto rovente tra Piazza Tirana, il Parco delle Cave e Lorenteggio: «Un giallo — spiega l’autore —, che è un pretesto per descrivere un quartiere in continua mutazione, tra storie di gangster, omicidi, rapine, droga e prostitute, dove convivono i “terruncielli” di Abatantuono, che qui è cresciuto, con arabi, cinesi, romeni, africani, sudamericani e gli “zarri” milanesi».
Oltre al protagonista, il detective Roger Zappa, i personaggi del libro sono Luciano Lutring, detto «Il solista del mitra», l’Aldovazzi, giornalista creatore di scoop inventati, Suvarin, vecchio clochard anarchico, il dottor Spallone, sostituto procuratore, Pedro
Luis da Costa, in arte Debbie, trans brasiliana e Jimmy il fascista. «Alcuni personaggi sono veri, altri sono verosimiglianti, molti sono inventati», spiega Lunardini, «tutti però sono funzionali al racconto, perché è facoltà di chi scrive mischiare avvenimenti e immaginazione».
Nella narrazione, che si sviluppa come un giallo atipico, con Roger Zappa che deve risolvere il caso di prostituta sgozzata a Boscoincittà, dopo aver raccontato il delitto a «Kriminalia», la sua trasmissione radiofonica, c’è un buon campionario di ciò che il Giambellino ha rappresentato dalla sua nascita, avvenuta intorno a inizio secolo, dalla ligera, la piccola malavita d’antan, fino al gangsterismo, quando in piazza Tirana si giocava a dadi sotto l’egida di Francis «faccia d’angelo» Turatello. «Nel dopoguerra», racconta l’autore, «cominciavano con furtarelli in stile ligera, reati commessi con il “sistema del buco”, come ne “I soliti ignoti “di Mario Monicelli. Poi, nel 1958, il primo salto di qualità con la rapina di via Osoppo a un furgone portavalori commessa da un “dream team” del crimine capitanato da Ugo Ciappina, con Enrico Cesaroni, Nando “il Terrone”, Arnaldo Gesmundo detto Jess il bandito, e altri. Gente che durante l’assalto puntò i mitra contro un uomo al balcone urlando “tatata”, come se fossero bambini con il fucile di legno. Mentre a una sciura, che ordinava loro di “andare a lavorare”, risposero: “E perché? Cosa stiamo facendo?”».
Una Milano che diventò presto un set cinematografico nei film di Carlo Lizzani e nel genere poliziottesco. «Tutto cambiò nel ’64, quando i marsigliesi vennero a Milano per la rapina di via Montenapoleone. Ci fu un crescendo di delitti sempre più estremi, in un’escalation di sangue e di malaffare, e il Giambellino cambiò in peggio. Arrivano Vallanzasca, le Brigate Rosse, con il nucleo storico che si incontra in piazza Tirana, mentre via Odazio diventa la più grande piazza di spaccio d’eroina d’Europa e il quartiere si riempie di tossici e sieropositivi».