La giustizia si ferma anzi no Udienze in ordine sparso
I due magistrati ricoverati sono in buone condizioni Salite a 40 le persone in quarantena per precauzione «Incertezza sui permessi ai lavoratori con figli a casa»
Emergenza coronavirus anche al Palazzo di Giustizia, dopo il caso dei due magistrati positivi al virus. Il tribunale non si ferma ma dispone una limitazione alle udienze di marzo, che vengono rinviate (con modalità diverse tra penali e civili) di alcuni mesi. Sono 40 le persone collegate al «Palazzaccio» messe in quarantena e molti corridoi sono deserti ma, anche nelle difficoltà, la macchina della giustizia non si ferma.
Deserto ma non troppo. Normale ma non del tutto. Davvero chiuso no, il Palazzo di Giustizia milanese, ma nemmeno davvero aperto; limitazioni alle udienze sì, ma entro certi limiti; e modifiche agli assetti lavorativi del personale in qualche ufficio sì e in qualche altro invece no. Il problema è che una macchina come il Palazzo di Giustizia (5 mila ingressi in media al giorno, 2 mila persone che vi lavorano a vario titolo) è un po’ come una centrale nucleare: anche a volerla spegnere (e qui peraltro non la si vuole intenzionalmente «spegnere» perché si ritiene non ve ne sia sensato motivo pur dopo i due episodici contagi di magistrati), non si può fare di colpo. E persino per fare alzare il piede dall’acceleratore e far girare il motore «al minimo», ci vuole tempo. Così ieri mattina la scena cambia a seconda del punto da dove la si guardi.
I corridoi del Tribunale sono in effetti abbastanza vuoti perché, come da circolare del presidente martedì, vengono rinviate di alcuni mesi le udienze ordinarie già calendarizzate sino al 31 marzo quelle penali e sino al 9 marzo quelle civili (ma nel pomeriggio questo termine è portato al 16 marzo). Nei corridoi e nelle stanze dei giudici invece della Corte d’Appello, specie della sezione Lavoro e del civile, molte udienze in mattinata si tengono lo stesso — con grande disapprovazione degli avvocati — perché un analogo provvedimento di tendenziale rinvio delle udienze ordinarie non urgenti viene emesso nel pomeriggio, e peraltro per quelle calendarizzate solo fino al 15 marzo (da oggi nel civile, da domani nel penale).
Già qui si coglie una differenza di postura organizzativa tra uffici giudiziari, dovuta al fatto che, di fronte ad autorità sanitarie che non ravvisano alcuna emergenza nell’universo del «Palazzaccio», c’è chi avverte di più la pressione degli avvocati (che caldeggiano una soluzione più generalizzata) e del personale amministrativo (che manifesta timori per la salute), e chi invece ritiene ci siano tutti gli estremi — pur una volta ridotti alcuni servizi e apprestati gli accorgimenti anti assembramento — per continuare a lavorare in maniera relativamente normale. Così se il procuratore Francesco Greco e il dirigente Roberto Candido scrivono al personale amministrativo del loro ufficio che «sarà riconosciuta la presenza in servizio a tutti i lavoratori genitori di figli minori a casa per le scuole chiuse», in Corte d’Appello il personale che chiede altrettanto margine non trova invece sponda, anche perché l’input del Ministero della Funzione Pubblica è che chi è retribuito per assicurare un servizio sul posto di lavoro lo assicuri nelle aree che (come allo stato Milano) non sono interessate da una specifica emergenza sanitaria da «zona rossa». Qualche ulteriore disomogeneità si crea così lo stesso, perché i rinvii di udienze ordinarie non sono «coperti» dal decreto legge che ha congelato i termini solo dei processi che in qualunque parte d’Italia abbiano un magistrato, un avvocato, un testimone, un imputato o una qualunque parte provenienti da una delle «zone rosse»: e quindi, mentre ad esempio in questi ultimi casi la prescrizione si blocca, nei casi invece di prudenziale rinvio organizzativo «alla milanese» i termini di prescrizione (così come tutte le altre scadenze) continuano a scorrere e a consumarsi. Ragione per cui tra i processi che si continuano a celebrare ci sono non soltanto le «direttissime» (con gli arrestati della notte prima) e quelli con detenuti, ma anche quelli di cui sia appunto prossima la prescrizione.
I due magistrati risultati positivi lunedì sera al virus sono intanto in buone condizioni all’ospedale Sacco, ma sono diventate già più di 40 le persone che si sono messe o sono state messe in quarantena a casa per prudenza. E non soltanto a Milano, visto che da ieri anche un giudice di Firenze è a casa: «Ieri mi ha contattato e mi ha detto di aver partecipato il 22 febbraio a un convegno insieme a uno dei giudici di Milano risultato positivo al coronavirus — spiega la presidente del Tribunale fiorentino, Marilena Rizzo —, così gli ho detto di stare a casa fino al termine del periodo di incubazione di 14 giorni».
Milano non è intanto esente da episodi a tratti buffi. Ieri un giudice d’appello, che nei giorni scorsi aveva avuto alcune linee di febbre non collegabili al virus, al momento di tornare in ufficio ha incontrato la contrarietà dei colleghi di sezione, che ne pretendevano comunque una «quarantena» volontaria: l’incolpevole toga per adesso ha accettato per quieto vivere di stare a casa un altro paio di giorni, poi si prepara a rientrare a costo di impugnare un certificato medico di cessata normale influenza. E nei capannelli tra avvocati ieri in corridoio teneva banco l’esilarante racconto di una udienza in tribunale civile nella quale un giudice, nella propria stanza, interloquiva a notevole distanza con gli avvocati fuori dalla porta, salvo dover affrontare il momento della verifica di alcuni atti. «Entro a portarglieli?», chiede un legale. «No no, restiamo a distanza», risponde il magistrato. «E allora come facciamo con questo documento che vuole controllare? Che faccio, glielo lancio?».