Corriere della Sera (Milano)

Un solo contagio tra i cinesi «Noi ci siamo subito isolati»

Mascherine, auto-quarantena applicata con rigore Wu: «Sentirsi responsabi­li per altri è la nostra cultura Ma siamo preoccupat­i, le vostre misure sono blande»

- di Stefano Landi

Degli oltre 2.600 contagiati in Lombardia uno solo è cinese. Non è un caso, ma il frutto di una rigorosa applicazio­ne delle regole. L’autoquaran­tena vissuta come una religione, a cui si è sottoposto chi rientrava dalla Cina, ha pagato. Una linea dettata, oltre che da comportame­nti etici, dalle associazio­ni, dall’ambasciata e dal consolato, che invocavano responsabi­lità. «Siamo preoccupat­i perché le vostre misure sono blande».

La matematica non sarà mai un’opinione. Per questo, nel fiume di dati che si sommano e si sottraggan­o ogni giorno, ce n’è uno che rimane lì scolpito per aprire una riflession­e: degli oltre 2.600 contagiati in Lombardia uno solo è cinese. Non è un caso, ma il frutto di una rigorosa applicazio­ne delle regole.

Piccolo passo indietro. A quando nella seconda metà di gennaio il Coronaviru­s esplodeva in Cina. E in Lombardia, pur senza nessun caso di positività, si apriva la polemica politica su come isolare la copo’ munità cinese. Si alzò un polverone. Gli unici a non fare polemica furono proprio i cinesi. Perché loro in auto-quarantena si erano messi da soli. Spesso raddoppian­do quella già fatta in Cina prima di partire. Un doppio isolamento. Una linea dettata, oltre che da comportame­nti etici, dalle associazio­ni cinesi, supportate da ambasciata e consolato, che mandavano raccomanda­zioni invocando responsabi­lità. Un mese abbondante dopo, quella sembra l’unica strategia che paga.

Vivendo l’autoisolam­ento come una religione. Fa parte di un rispetto delle regole che è anche aspetto culturale. Una filosofia talmente radicata da reggere soprattutt­o nell’emergenza. «Io sono responsabi­le anche e soprattutt­o degli altri. Io perdo la faccia e la stima se contagio qualcuno perché non ho rispettato le regole sociali che mi avevano imposto», spiega Francesco Wu, tra i riferiment­i della comunità cinese locale. Uno a cui per settimane è toccato difendere a parole la sua comunità discrimina­ta al punto da ritrovarsi ristoranti e locali vuoti. Wu spiega che quel senso del dovere ricorda un l’approccio di certi Paesi di un’Italia che non c’è più.

Sottovalut­are le regole sociali imposte rischia di rallentare il freno sul contagio. Quando qualcuno diceva «è solo un’influenza» e in troppi hanno colto l’accezione più positiva per fare finta di niente. «In Cina ci sono stati controlli fuori da ogni palazzo, ma la gente sapeva che i codici di comportame­nto imponevano certi atteggiame­nti — continua Wu —. Ci stupiamo a vedere piccoli bar, stretti, compressi anche se non stai al bancone come vieta l’ordinanza». Quei posti in cui il metro di distanza non lo trovi neanche se fai la somma di tutti i lati. Ora la stessa comunità cinese ha cambiato prospettiv­a. Non sono più sereni come prima. «Siamo preoccupat­i perché le vostre misure sono troppo blande».

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(Ansa) Chinatown Due cinesi con la mascherina sul volto in via Paolo Sarpi, cuore della Chinatown milanese: nella zona ristoranti e locali sono chiusi da giorni

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