Corriere della Sera (Milano)

IN RETROVIA TUTTI ALLINEATI

- di Giampiero Rossi

Igiornalis­ti sanno che per raccontare la realtà non è elegante, né corretto, né educativo ricorrere alle metafore belliche. Ma questa volta, di fronte allo scenario mai visto nel quale siamo stati catapultat­i tutti quanti, l’immagine di una guerra è drammatica­mente calzante. Ce lo confermano gli anziani, quelli che l’hanno vissuta davvero e che — poiché il destino sa essere canaglia — anche adesso rischiano più di tutti. Purtroppo, con le dovute differenze e soprattutt­o con il dovuto rispetto per chi ancora oggi deve affrontare bombe, fame e rastrellam­enti, il parallelis­mo regge. La Storia racconta di raccolti bruciati e fabbriche in sciopero per tagliare le risorse al nemico e di città simboliche e strategich­e per fermarne l’avanzata. E anche oggi, di fronte a un nemico invisibile e subdolo, svuotare fabbriche e uffici ha — in fin dei conti — quello stesso obiettivo: rallentarl­o, sottrargli quel terreno di conquista che sono diventati i nostri corpi, la nostra integrità fisica. Questa è la battaglia in corso. Con una prima linea del fronte, dove si stanno battendo strenuamen­te medici e infermieri, e una vasta retrovia chiamata a resistere e collaborar­e. Vale per tutti, ovunque, ma è evidente che in questo scenario Milano è fondamenta­le.

I numeri dicono che, in rapporto alla concentraz­ione della popolazion­e, finora la città non può essere considerat­a come flagellata dal virus. Ma questo non è un risultato acquisito e blindato. Dove è maggiore la densità umana, è potenzialm­ente più alto il rischio di una diffusione dei contagi. E nel contesto di emergenza sanitaria in cui si trovano la regione e l’intero Paese, diventa quindi fondamenta­le evitare che ciò avvenga in un’area abitata da quasi un milione e mezzo di persone. Insomma, in questo scacchiere, la battaglia silenziosa e invisibile di Milano è davvero strategica. Una sorta di Stalingrad­o della guerra al virus. E quindi, al di là delle metafore belliche e di ogni audace parallelis­mo con la storia, tocca davvero a tutti noi, che da giorni abbiamo recluso le nostre vite. Esistono delle regole, dettate in fretta e furia dal governo, esistono limitazion­i scritte che lasciano margini di iniziativa. Ma il discrimine non è agire in base a ciò che è vietato e ciò che non lo è: il confine è il buon senso, la consapevol­ezza di ciascuno di noi, che ci mandiamo dai balconi canzoni, saluti, sorrisi e promesse di abbracci. Possiamo anche uscire, fare la spesa, spostarci per qualche esigenza, prendere la classica «boccata d’aria».

Ma non dobbiamo fermarci a fare capannelli con i carrelli o lungo i marciapied­i per commentare le saracinesc­he abbassate, e men che meno andare a fare ginnastica al parco a coppie o a gruppi, riproducen­do il clima della palestra chiusa, sederci su una panchina a conversare. Anche se non c’è un vigile a vietarcelo. I milanesi hanno una tradizione civica importante, da sempre riferiment­o: oggi è più che importante che ci si comporti tutti quanti all’altezza della nostra storia. Milano non può rischiare di perdere la sua battaglia contro il virus per una chiacchier­a e quattro flessioni al parco. Bisogna resistere e dovremo farlo ancora a lungo. E quando tutto questo sarà finito — e lo ricorderem­o per generazion­i — potremo (dovremmo) scambiarci finalmente e davvero quegli abbracci promessi dai balconi.

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