Smart working in ordine sparso
La Regione stanzia 4,5 milioni per le attività a distanza Avanti banche e grandi gruppi, in affanno i piccoli I sindacati: disposizioni ignorate in alcuni call center
La Regione stanzia 4,5 milioni per lo smart working nelle aziende. A che punto siamo?
Dalle università alle aziende del terziario passando per gli studi professionali: dall’avvio dell’emergenza sanitaria, e come richiesto dal Dpcm dell’11 marzo, è necessario il massimo utilizzo del «lavoro agile» (ovvero, del lavoro da casa) da parte delle aziende per tutte le attività che possono essere svolte a distanza. Ma fatta eccezione per grandi gruppi, particolari settori o casi virtuosi, in molti altri lo smart working per i lavoratori è ancora un miraggio. A questo tenta di porre rimedio la delibera regionale approvata ieri, che stanzia 4,5 milioni a fondo perduto per la promozione di piani di smart working nelle aziende. Potranno fare domanda di contributo i datori di lavoro con almeno tre dipendenti, per servizi di consulenza e formazione (con un voucher di massimo 15mila euro); oppure per l’acquisto di strumenti tecnologici (con uno di massimo 7.500 euro). Risorse che il Pd regionale però chiede di raddoppiare, «da 4,5 a 9 milioni» e di distribuire con «procedure più semplici».
Non sembrano esserci ritardi nei grandi gruppi «come Eni, Saipem, Snam o i grossi istituti bancari», concordano i sindacati. Dove, da oltre due settimane, tutti i dipendenti che potevano svolgere le mansioni a distanza, lavorano da casa. «Aziende che avevano già accordi per casistiche particolari (come i congedi parentali), li hanno semplicemente estesi a tutti. L’emergenza ha fatto sì che le imprese superassero problemi che sembravano insormontabili», commenta Vincenzo Cesare, segretario regionale responsabile Uil Città metropolitana.
Tra le piccole aziende, ma anche considerando molte aziende medie di servizi o alcuni piccoli studi professionali, «le società che non hanno ancora approntato un piano di lavoro agile sono parecchie», dice Cesare. Il motivo? Tempo (o meglio, ritardi) e denaro. «C’è una sorta di stallo in attesa del decreto governativo (approvato solo ieri pomeriggio, ndr). Per attivare un piano di smart working ci vogliono tempo e soldi: molti preferiscono aspettare di avere le garanzie per chiudere e ricevere gli ammortizzatori sociali, invece che attivarlo».
Nei grandi studi legali, l’emergenza può aver dato «un’ulteriore spinta al processo di digitalizzazione e smart working già in atto», fa sapere lo studio Gianni Origoni, dove oggi lavorano «a rotazione da casa sia i professionisti che le figure con funzioni di supporto». Ci sono poi le situazioni «miste»: «Seguiamo un’azienda della logistica — segnala Cesare — che ha messo solo alcune “categorie” tra gli amministrativi in smartworking, a partire da analoghe posizioni. O aziende nel terziario, «come una società di consulenza nel milanese», dice Paolo Miranda, segretario generale Fisascat Cisl Milano, che «obbligano alcuni dipendenti a lavorare dalla sede, anche senza misure di prevenzione e sanificazione degli ambienti».
Tra i settori più controversi c’è quello dei call center, dove si lavora in stanze affollate e spesso con contratti di collaborazione. I grossi gruppi, come Tim, Fastweb Wind e Vodafone, stanno lavorando da remoto. Molti altri no: alla Uil non risulta un ricorso diffuso allo smart working. Ma ci sono le eccezioni, come la «Mercury Payments, parte del gruppo Nexi — ricorda Massimiliano Genova, operatore sindacale Cisl Milano —, che, su sollecitazione, ha acquistato pc portatili configurandoli con la rete aziendale e ricreando una postazione a domicilio». A procedere a rilento, spiega Genova, «sono paradossalmente le piccole realtà a gestione familiare oppure quelle legate a grandi multinazionali: la casa madre dà ordine di non procedere allo smart working perché dice di avere assunto tutti i protocolli di sicurezza».
Differenze che non ci sono invece in ambito universitario: gli atenei milanesi hanno approntato o esteso a quasi tutto il personale la possibilità di lavorare da casa. «Bocconi da anni adotta il lavoro agile: doverlo estendere alla quasi totalità del nostro staff amministrativo (circa 600 persone) non ci ha colti impreparati», spiega il managing director Riccardo Taranto. In Statale, «dove solo le attività indifferibili da rendere in presenza vengono ancora svolte in ateneo — dice la prorettrice Marina Brambilla —, tutto il personale tecnico amministrativo e bibliotecario lavora da remoto: 1.733 dipendenti, su un totale di 1.967».
Gli atenei
«Eravamo pronti» Operativo da remoto personale amministrativo e bibliotecario