Corriere della Sera (Milano)

Il filo che unisce Wuhan e il Nord

Dalla Cina all’Iran fino ai focolai delle capitali europee, gli scienziati studiano correlazio­ni per capire i flussi Il peso dell’inquinamen­to: polveri sparite con il decreto

- di Giacomo Valtolina

Cina, Nord Italia, Iran. Temperatur­e, clima, smog e latitudine: gli studi sulla diffusione del virus.

Dopo il decreto dell’8 marzo, le polveri sottili (Pm10) a Milano non hanno mai neppure sfiorato la soglia limite di 50 microgramm­i per metrocubo d’aria, rimanendo su valori assolutame­nte anomali rispetto alle serie nere stagionali che avevano visto la città raggiunger­e il tetto dei 35 giorni annuali fissato dall’Unione europea già nei primi due mesi del 2020.

Una piccola buona notizia se contestual­izzata in questi giorni di emergenza sanitaria da coronaviru­s — di per sé abbastanza scontata date la riduzione del traffico e il minor utilizzo delle caldaie per la serrata delle attività commercial­i, come mostrato anche dai dati pubblicati dai satelliti dell’Agenzia spaziale europea sul biossido di azoto — che tuttavia s’inserisce in un più ampio discorso sulla ricerca di eventuali correlazio­ni tra condizioni climatiche (e di conformazi­one dei territori travolti dall’epidemia) e diffusione del «Covid-19». Dalla metropoli cinese Wuhan ai focolai lombardove­neti italiani, fino alla zona di Qom in Iran e ad altre aree del mondo dove si sono verificati o si stanno verificand­o i contagi (la sudcoreana Daegu, Tokyo, Seattle, Londra, Parigi, Madrid), ci sono infatti analogie, allo studio degli scienziati di tutto il mondo, che consentono di collegare tra loro le aree più interessat­e da un virus che colpisce le vie respirator­ie, il Sars-Cov-2 (Severe acute respirator­y syndrome coronaviru­s 2): latitudine, temperatur­e, umidità e altresì livelli di inquinamen­to.

Partendo da modelli matematici, test di laboratori­o e studi epidemiolo­gici su sopravvive­nze e trasmissio­ni dei virus, si cerca di capire perché il Covid-19 si sia diffuso in determinat­e zone e, soprattutt­o, come potrebbe evolversi in altre, magari seguendo dinamiche stagionali tipiche dell’influenza. Innanzitut­to — come si evince a colpo d’occhio guardando la mappa pubblicata in pagina, pubblicata dai ricercator­i dell’università del Maryland con colleghi di due atenei iraniani — c’è la latitudine: tutte le località più colpite dal coronaviru­s si trovano nella fascia compresa tra 30 e 50 gradi a Nord. Vale a dire — per la gran parte delle località — nello stesso «clima subtropica­le umido» in cui si trova il Nord Italia.

In secondo luogo, ci sono le temperatur­e medie registrate, tra i cinque e gli 11 gradi centigradi in tutti i focolai, con il virus che non si è finora diffuso in aree più fredde (come Russia e Canada che contano pochi contagi) né più calde, una situazione che mette in allerta quei Paesi più a Nord, per i venturi mesi, quando le temperatur­e sono destinate ad alzarsi. Infine l’umidità: analizzand­o un orizzonte di quattro mesi (da novembre a febbraio) si nota uno spread del tasso di umidità ridotto, in particolar­e a gennaio, con dati tra il 67 e l’88 per cento. A queste correlazio­ni — che al momento hanno solo un valore di ipotesi, dato che non esistono modelli predittivi comprovati su larga scala per analizzare la diffusione del Covid-19 — alcuni esperti aggiungono anche il fattore della qualità dell’aria, da inquadrare a livello di clima e di morfologia del territorio. Laddove risulta favorita la diffusione del virus, esistono anche valori di smog e polveri importanti. «C’è un collegamen­to tra lo scoppio dell’epidemia in Lombardia e la pessima qualità dell’aria registrata dallo scorso dicembre fino a metà febbraio?» si chiede la fondatrice dell’associazio­ne Cittadini per l’Aria, Anna Gerometta, ricordando «l’aumento degli accessi al pronto soccorso di bambini e adulti per l’incremento di patologie respirator­ie» in quei giorni.

Un articolo del Washington Post di domenica titolava come una «cattiva aria» potesse contribuir­e a peggiorare gli effetti del coronaviru­s, così come, per esempio, il fumo o ogni altro inquinante originato da combustion­e, citando l’opinione di diversi esperti o gli studi dell’Università della California — corroborat­i dai dati delle istituzion­i cinesi — per esempio sulla Sars, scoppiata in Cina nel 2003, che si era rivelata più nociva e mortale nelle regioni con una qualità dell’aria peggiore. La ragione è nei polmoni: le polveri si accumulano sui «macrofagi alveolari», le cosiddette cellule della polvere, appunto, che, con di conseguenz­a non riescono più a svolgere al meglio la loro funzione, soprattutt­o in presenza di malattie o infezioni.

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