La Traviata che fece storia
I segreti dell’opera in scena alla Scala nel 1956
Nel gennaio del 1956 il mondo iniziava a ballare il rock and roll con Elvis Presley mentre alla Scala si attendeva il ritorno della Callas. Dal giorno 19 era in cartellone la ripresa della «Traviata» con regia di Luchino Visconti, direzione di Carlo Maria Giulini, figurini di Lila de Nobili. Mancava, rispetto all’anno prima, «Pippo» Di Stefano, al cui posto era stato scritturato il giovane Gianni Raimondi. La Callas era all’apice del successo. Aveva debuttato alla Scala in «Aida» del 1950 diretta da Franco Capuana come sostituta di Renata Tebaldi, nel dicembre del 1953, dimagritissima dopo la leggendaria cura ormonale, aveva trionfato in «Medea», il 7 dicembre ’54 aveva inaugurato la stagione nella «Vestale» di Spontini, con Franco Corelli e regia di Visconti. Il connubio Callas-Visconti avrebbe dato migliori frutti proprio nella ripresa della «Traviata».
La messa in scena di quest’opera era stata faticosa, come ricordava sul «Corriere della Sera» del 25 maggio ‘55 Eugenio Montale. A De Sabata era subentrato Giulini mentre Di Stefano aveva più volte minacciato di abbandonare il suo posto. L’anno dopo gli subentrò l’esordiente Raimondi, che divenne un mito.
Nel ‘56 la Scala celebrava i duecento anni dalla nascita di Mozart, lanciava lo sfortunato Guido Cantelli e confermava la Callas come protagonista nella «Fedora» di Giordano. Ma era «Traviata» che i melomani attendevano. La messa in scena dell’opera di Verdi fu un fortu- nato incontro di professionali- tà. Oltre alla Callas e a Raimondi, si alternarono nel ruolo di Giorgio Germont Ettore Bastianini e Aldo Protti. Bastianini, uno dei baritoni più apprezzati in quegli anni, ricevette qualche osservazione per il canto «troppo forte».
Visconti veniva dal successo del film «Senso», omaggio a Verdi e revisione critica del Risorgimento. Credeva fortemente nell’impianto drammaturgico definito realistico e cercò di concepire l’azione scenica come un continuum, conferendo liricità e verismo a parti più trascurate dell’opera, come il secondo atto. La sua intenzione era aggiungere freschezza e vivacità al rapporto tra Violetta e gli altri nel primo atto per poi accentuare la caduta nel dramma. Per ottenere questi risultati gli fu d’aiuto la scenografa Lila De Nobili, che nell’ultimo atto spogliò la casa di Violetta. Quanto allo schivo Giulini, quel ’56 fu il suo ultimo anno a Milano prima di partire per gli Usa.
Il gennaio del ’56 fu uno dei più rigidi del dopoguerra. Le scene dell’opera, predisposte nel deposito di via Maffucci, in zona Bovisa, furono trasportate su camion in via Verdi. Qui, il direttore degli allestimenti scenici, Nicola Benois, si occupò di disporle e azionarle sul vecchio palcoscenico, costruito dall’ingegnere Luigi Secchi negli anni Trenta.
Alle prove in teatro, Visconti fu spesso presente e, con lui, la De Nobili. Seduto in sala c’era sempre anche il commendator Meneghini. I biglietti furono subito venduti, con tanto di tradizionale coda dei loggionisti sotto i portici. Il 19 gennaio, alle venti e quindici, la folla era già accalcata davanti alle porte: lo spettacolo iniziava alle ventuno ed era in quattro atti. Quel 19 ci fu una defezione: al posto di Giorgio Tadeo, nel ruolo del Marchese d’Obigny cantò Dario Caselli. Come Giorgio Germont cantò Bastianini, ma fu l’unica recita: fu sostituito (per indisposizione) da Aldo Protti. I prezzi della prima serata variarono dalle 9 mila lire della platea alle 250 lire della seconda galleria; il posto di platea scese poi sino a 4 mila lire.
Le recensioni del giorno dopo non lasciarono dubbi sull’andamento della serata. Pur con qualche rilievo. «Bravi come l’anno scorso, ancora di più, persino troppo», fu il titolo che accompagnava la recensione di Montale sul «Corriere d’Informazioni». Raimondi nel ruolo di Alfredo apparve in effetti più omogeneo rispetto a Di Stefano, più «educato» nel canto in confronto al coloristico «Pippo». E anche Bastianini presentò un fraseggio più sfumato, in linea con la Callas.