Il laboratorio per sanificare e riutilizzare la mascherine
Gli esperti del nucleo Nbcr con Politecnico e Sacco lavorano al piano (avanzato) per la rigenerazione Quattro ipotesi in campo, tre esigenze fondamentali
Mancano mascherine. Sempre dura acquistarne di nuove, quindi serve un’alternativa. Come riciclarle (in sicurezza). Il termine tecnico è restorage, che è anche l’obiettivo di un progetto già in fase avanzata al quale lavorano gli esperti del Nucleo Nbcr (Nucleare biologico chimico radiologico) dei Vigili del fuoco in collaborazione con la facoltà di Chimica del Politecnico e con il Sacco.
L’idea è nata con l’epidemia esplosa, e la carenza di mascherine diventata drammatica. «Non si può provare a riciclarle?». Forse. «Ma in sicurezza». Perciò, più che riciclo, serve una rigenerazione. Eccolo, l’obiettivo di un progetto riservato (e già in fase avanzata) al quale lavorano da oltre una settimana gli esperti del Nucleo Nbcr (Nucleare biologico chimico radiologico) dei vigili del fuoco, che stanno studiando ed elaborando le ipotesi tecnologiche in collaborazione con la facoltà di chimica del «Politecnico» e con l’ospedale «Sacco».
I Nuclei Nbcr vennero creati dopo l’11 settembre come avamposti avanzati nella difesa civile contro attacchi «non convenzionali». In quasi un ventennio hanno accumulato eccezionali capacità: quello di Milano è tra i gruppi più avanzati del sistema, e così dai vertici del comando è arrivato l’invito a mettersi a lavorare sulla possibilità di rigenerare le mascherine. Lo stesso input è arrivato al «Politecnico» direttamente dalla Regione. E così, grazie a protocolli di collaborazione già firmati in passato, è partito il lavoro del quale il Corriere può rivelare i primi dettagli.
Le mascherine chirurgiche hanno una capacità di filtraggio intorno all’80 per cento; quelle Ffp3 vicino al 99. La durata (e quindi la «scadenza» — sono tutti dispositivi usa e getta) dipende dal fatto che le prime diventano umide col respiro, mentre in quelle più avanzate i filtri si saturano. Gli ingegneri dei vigili del fuoco stanno lavorando con i chimici dell’università su quattro ipotesi di «riciclo». Le prime 3 puntano a «uccidere» il virus: raggi ultravioletti (che però non sarebbero efficaci per i filtri delle Ffp3); ozono (stessa tecnica con la quale ad esempio si «sanificano» le ambulanze); raggi gamma (ma c’è il problema di macchinari complessi). Infine, un’idea che sta molto nella mentalità dei vigili del fuoco: se voglio spegnere un incendio, tolgo l’ossigeno che lo alimenta. In questo caso, si può tradurre così: se voglio annientare
il virus, posso eliminare l’«ambiente» che lo ospita, l’aerosol, le micro gocce di saliva. Dunque le mascherine potrebbero essere messe in grandi essiccatoi che di fatto le prosciugano, spazzando via umidità e virus. La scelta finale sarà quella che meglio risponderà a tre esigenze che si incrociano: rapidità di mettere a punto la tecnica (per far fronte al più presto alle necessità), affidabilità (punto sul quale saranno fondamentali i test del dipartimento di chimica, ma soprattutto quelli del «Sacco» per accertare se il coronavirus si estingue del tutto) e volumi (cioè quale opzione permetterà di rigenerare il maggior numero di mascherine nel minor tempo). È possibile che alla fine si potranno anche combinare o utilizzare diverse ipotesi a seconda del tipo di mascherina. A quel punto servirà soltanto qualche azienda che possa fare dei test sulla «tenuta». Se le verifiche daranno buoni risultati è probabile che alla fine arriverà una deroga sulle certificazioni, analoga a quella per le aziende tessili che si stanno riconvertendo come nuovi produttori d’emergenza.