Corriere della Sera (Milano)

Ospedali, caos focolai «E vanno difese le Rsa»

Pazienti e operatori infetti anche nei settori non Covid Allerta da Niguarda a Melzo, da Magenta a Melegnano I sindacati: poche protezioni, siamo esposti al contagio

- di Maurizio Giannattas­io e Gianni Santucci

Negli ospedali è ormai caos focolai. E da Niguarda a Melzo, fino a Melegnano, scatta l’allerta: «Mancano le protezioni e le adeguate barriere tra i reparti, ormai il virus si diffonde anche negli altri reparti, medici e infermieri corrono il rischio di essere contagiati». Emergenza Rsa, l’assessore Rabaiotti ai consiglier­i: «Abbiamo 27 casi e otto decessi nelle case di riposo e nei dormitori. E purtroppo i nostri anziani non vengono ricoverati».

«L’altro giorno abbiamo fatto il tampone su sei pazienti. Cinque positivi. Ma attenzione, questo avrebbe dovuto essere un reparto no-Covid», racconta un medico. Un reparto isolato, per attività ordinarie. «E invece i pazienti si “positivizz­ano”», aggiunge un infermiere. Voci dalla «Medicina 2» dell’ospedale di Melzo: «A ruota ci ammaliamo noi. Vedo colleghi “cadere” ogni giorno. Una è appena rimasta a casa con 40 di febbre, il marito anche, mi dice che sta salendo anche al figlio. Altri tre infermieri mi hanno appena chiamato, sono malati». L’epidemia si racconta anche attraverso le parole: negli ospedali adesso tutti parlano di reparti «puliti» e reparti «sporchi». Solo che ormai mantenere zone «pulite» sta diventando una missione sempre più disperata. Lo è in zone di trincea come Melzo e Melegnano, dove (per collocazio­ne geografica) è ricaduto il dramma di Lodi e Bergamo, «ed è stata una tempesta». Ma lo è anche in ospedali d’eccellenza a Milano, come Niguarda, dove si sono ammalati pazienti e infermieri di reparti «puliti» come la Psichiatri­a, la Chirurgia (positivi il capo di un’équipe e alcuni pazienti), la zona della dialisi (tre infermieri in quarantena). Con i cittadini blindati nelle case gli ospedali rischiano di restare i luoghi che sostengono ancora il contagio e la diffusione dell’epidemia.

Lo ripetono decine di medici e infermieri interpella­ti in questi giorni dal Corriere.È successo, e succede, per due ragioni principali, che stanno scavando ferite e spaccature profonde nella sanità lombarda e nella sua reputazion­e d’eccellenza, sempre rimarcata da chi la governa in Regione. Prima, una sostanzial­e impreparaz­ione rispetto a una pandemia: dunque, poche scorte di mascherine e protezioni per il personale, e confuse linee guida per impedire il dilagare del contagio nelle strutture sanitarie. Secondo, l’improvviso cambio di direzione arrivato «dall’alto» ad epidemia già scoppiata. Lo spiega con semplicità un medico del Policlinic­o: «Quando è stato scoperto il primo caso “interno”, quello del nostro collega dermatolog­o, sono stati subito fatti i tamponi ai suoi contatti e la diffusione è stata isolata, contenuta. Erano i primi giorni dopo Codogno. Poi si è deciso di cambiare del tutto politica. Niente più tamponi, medici e infermieri tutti al lavoro, pure se avevano un familiare “positivo” in casa. Così non si è sguarnito il personale degli ospedali, forse: ma si sono aperte autostrade al virus».

Nell’Ovest milanese, tra gli ospedali di Magenta e Legnano, si contano 53 positivi tra il personale sanitario. Il perché lo ipotizza un’infermiera: «È stata a lungo in vigore una direttiva quasi “criminale”. Se un cittadino entrava in contatto con un positivo, si doveva isolare; se capitava invece a un medico, o a un infermiere, doveva andare al lavoro fino a eventuale comparsa di sintomi. Quanta infezione abbiamo portato in giro così tra pazienti, colleghi e famiglie? La carenza di mascherine e protezioni hanno fatto il resto».

La falla nel sistema sanitario, al netto dell’abnegazion­e dei medici e degli infermieri, sta emergendo come dato centrale nella diffusione dell’epidemia, una tesi che va ben oltre mugugni o denunce personali.

La definiscon­o infatti una «lezione» i 13 medici dell’ospedale «Papa Giovanni XXIII» di Bergamo che due giorni fa hanno pubblicato un articolo sul New england journal of medicine, la più antica e tra le più importanti riviste di medicina al mondo: «Stiamo imparando che gli ospedali possono essere il maggior vettore per il Covid-19, perché sono stati rapidament­e popolati di pazienti infetti, facilitand­o il contagio di pazienti non infetti. I lavoratori della sanità sono vettori asintomati­ci o malati senza sorveglian­za». È proprio quel che è accaduto. E dunque «negli ospedali la protezione del personale sanitario dovrebbe essere la priorità. Senza compromess­i sui protocolli, e con le protezioni a disposizio­ne». La carenza di materiale di protezione ha portato l’Istituto superiore di sanità a diramare linee guida per cui un infermiere che lavora con i pazienti Covid-19, se questi «non generano aerosol», può indossare solo la mascherina chirurgica e il camice monouso. «Ma se giro un paziente con la polmonite, è molto facile che possa tossire. E a quel punto che faccio?», riflette un operatore del Niguarda.

La Regione due giorni fa ha in parte corretto le procedure: se oggi un medico o infermiere arriva al lavoro e ha oltre 37,5 di febbre farà il tampone. Ma se resta a casa con la febbre alta, l’esame non viene fatto, o almeno non è detto. E la temperatur­a a inizio turno la può anche autocertif­icare.

Sulla necessità dei tamponi al personale sanitario per contenere la diffusione del virus negli ospedali la Cisl è in prima linea da giorni, e ieri ha preso una durissima posizione insieme a Uil e Cgil: «Ogni giorno riceviamo segnalazio­ni che nelle varie strutture si fa uso anche di mascherine fatte con gli assorbenti o di calzari fatti con i sacchi della spazzatura. Questa è tutela? Tutti i lavoratori della sanità sono esposti al contagio e vanno protetti e monitorati attraverso i tamponi».

 La catena Tenere gli spazi separati e protetti ormai è difficile: il contagio avviene a ruota

 Infermieri La direttiva è lavorare fino alla comparsa dei sintomi anche se ci sono stati contatti a rischio

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy