Chiese, il piano sulla riapertura
Nel piano previsti flussi controllati, protezioni, distanze Vertice con Prefettura, Comune e Regione I sacerdoti: amarezza «ma lontani da contese politiche»
Curia, Regione e Prefettura studiano una proposta per tornare a celebrare le Messe in sicurezza.
La messa non può ancora iniziare. Ma le campane ambrosiane non suoneranno contro lo trombe romane. Nessuno scontro, niente prove muscolari e soprattutto, «lontani dalla contesa politica»: questo dicono, tra loro, i preti milanesi, a proposito della conferma del divieto di partecipazione dei fedeli alle celebrazioni. La voglia di tornare a guardare in faccia i loro parrocchiani è forte, ma quella di tenersi alla larga dalle strumentalizzazioni delle parrocchie politiche sembra, in questo momento, persino più forte. E poi il governo si è impegnato a studiare soluzioni.
Il giorno dopo l’annuncio della Fase 2 da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte dalla curia non arriva alcun commento ufficiale. Del resto «ha già parlato la Conferenza episcopale». Non aggiunge nulla, dunque, l’arcivescovo Mario Delpini. Ma in piazza Fontana è noto a molti che da tempo la Chiesa sta lavorando a un possibile progetto da sottoporre all’attenzione del governo sulle modalità di gestione dei riti religiosi una volta ottenuto il via libera a riaprire le porte. La sostanza non è affatto dissimile da quella che caratterizza le linee guida per far funzionare il trasporto pubblico, le aziende: distanze, qualche forma di controllo dei flussi, insomma «tutto quello che può essere necessario per poter celebrare una messa in sicurezza».
Su tutto questo l’arcivescovado ha avviato «da tempo» un confronto con il prefetto e con la Regione, e proprio ieri in serata era atteso un primo riscontro, in concomitanza con il blitz milanese del presidente Conte. Ma Palazzo Lombardia ha giocato d’anticipo e già nel primo pomeriggio il presidente Attilio Fontana ha annunciato di essere «al lavoro con prefettura, Comune e arcidiocesi per sostenere la possibilità di riaprire le chiese per le celebrazioni religiose in una cornice di massima sicurezza. L’auspicio — aggiunge — è quello di giungere al più presto a una soluzione condivisa che possa tenere conto tanto delle esigenze di cautela, quanto della necessità di tornare a garantire il diritto di culto ai cittadini».
Ma cosa ne pensano i preti? Non esiste un fronte monolitico e uniforme di pensiero: qualcuno è molto amareggiato (per non dire arrabbiato) perché contava seriamente di rivedere i fedeli alla domenica, qualcuno più prudente, qualcun altro non nasconde i suoi timori per i rischi di contagio. Tra i più decisi nel sostenere le ragioni del sì alla riapertura c’è don Mario Longo, infaticabile parroco della Santissima Trinità, in zona Paolo Sarpi: «Lo Stato non può dire alla Chiesa di non esercitare la sua missione pastorale — premette in un lungo e veemente videomessaggio —. Noi cattolici ci attendiamo regole scientifiche e ci faremo garanti del loro scrupoloso rispetto. Ci sono regole per i locali di somministrazione di cibi e bevande, ma anche noi somministriamo il pane e il vino? E poi i nostri avventori si trattengono al massimo 50 minuti alla settimana. Forse si pensa che non vi siano nelle nostre comunità persone responsabili capaci di garantire la sicurezza?».
Diverso l’approccio di don Luigi Caldera, che guida la comunità pastorale della Madonna del Rosario a Cesano Boscone, compagno di studi dell’arcivescovo Delpini: «Tutti noi vorremmo rivedere i volti dei nostri parrocchiani, ma una situazione così è nuova per chiunque. Quindi — osserva — è vero che noi possiamo aumentare il numero delle messe e che i fedeli possono andare in un’altra chiesa, ma prendiamo anche questo tempo come un’occasione per riscoprire la preghiera domestica. In Corea la Chiesa era scomparsa per duecento anni e la fede è rimasta. Possiamo farcela anche noi. E senza farci strumentalizzare dalla politica».