L’infermiera-volontaria bloccata da tre mesi in Africa
L’infermiera Valentina Mozzi, eletta in una lista civica di Casalmaggiore, si trova in Uganda da metà febbraio «C’è l’abitudine a vivere in situazioni d’emergenza»
CREMONA Un arcobaleno di colori per non cedere al terrore. Nel distretto di Gulu, nord Uganda, Valentina Mozzi, classe 1984, è arrivata sotto l’egida della Fondazione Corti, onlus di Milano, per preparare la sua tesi nel master post laurea in Scienze infermieristiche e per supportare l’ufficio qualità del St. Mary’s Hospital Lacor, che cura 250.000 pazienti l’anno e dal 1961 è passato sotto la direzione dei coniugi Piero Corti e Lucille Teasdale. «È la mia prima missione all’estero — spiega Valentina —: sono partita il 17 febbraio, una settimana prima che in Italia arrivasse il coronavirus. Dovevo tornare a metà maggio, invece…». Residente a Sabbioneta (Mantova) e consigliere comunale per il gruppo civico di centro-sinistra «Casalmaggiore la Nostra Casa» a Casalmaggiore (Cremona), Valentina è infermiera a Guastalla (Reggio Emilia). «A metà marzo ho avuto l’opportunità di tornare ed è stato un dilemma: per la prima volta nella storia l’Europa, e l’Italia, avevano più bisogno dell’Africa. Però ho deciso che due mani in più facevano comunque più comodo qua».
Il St. Mary’s ha dieci posti in Terapia intensiva, gli unici nel nord del paese africano. «Per il momento non ve n’è stato bisogno: abbiamo riconvertito il padiglione di Medicina in reparto Infettivi. Ad oggi abbiamo due pazienti sospetti, mentre quindici positivi sono all’ospedale governativo di Gulu. Qui nessuno si muove, i contagi arrivano da camionisti dal Kenya o dal Sud Sudan. Il ricordo di Ebola, che ha colpito duro nel 2000, ha spinto molti a rispettare le misure stringenti imposte dal 25 marzo. C’è maggiore abitudine ad accontentarsi di poco e a inventarsi soluzioni con risorse minime, nonostante la mancanza di lavoro porti al rischio concreto di morire di fame». Quello che non manca è la fantasia. «Ho tre immagini impresse nella memoria: le riunioni all’aperto il sabato mattina, con molti dei 750 dipendenti dell’ospedale divisi in gruppi, ciascuno rispettoso delle distanze; le mascherine, prodotte dalle sarte locali, di ogni colore, mettendo il Dna culturale di queste terre in uno strumento così semplice; infine i sorrisi, che si leggono dietro le mascherine, dei ragazzini che ci incrociano per strada, mentre siamo bardati come astronauti».
In Uganda, il 6 giugno è prevista una direttiva presidenziale. «Potrebbero aprire i confini, ma io mi sono presa l’aspettativa e al lavoro sono stati molto comprensivi. Rimarrò qui ancora un po’, augurandomi vada tutto bene e che l’Occidente una volta tanto impari a empatizzare con chi, in questo continente, vive spesso esperienze simili al coronavirus».