Crisi a sorpresa per i megastore
Lo stop agli spostamenti fuori città per fare la spesa ha penalizzato i megastore nei Comuni della provincia Iper, Carrefour e Gigante chiedono ammortizzatori
Dalle code alla cassa integrazione, la grande distribuzione in difficoltà.
Dagli straordinari delle cassiere alla cassa integrazione. Dagli scaffali depredati ai conti in rosso. Nelle settimane di sospensione delle nostre vite i supermercati sono stati il punto di riferimento principale della poca «mondanità» concessa dalle rigide regole anti-pandemia. Al punto che i lavoratori della grande distribuzione alimentare — a buon diritto — sono stati inseriti nel novero degli «eroi» del lockdown.
Lunghe e pazienti code all’esterno, lente e caute procedure all’interno, dove comunque i registratori di cassa hanno battuto incessantemente incassi ricchi, figli anche di qualche isteria da accaparramento. «Eppure, adesso, diverse catene — come fa notare il segretario della Filcams Cgil di Milano, Marco Beretta — stanno facendo ricorso agli ammortizzatori sociali per i propri dipendenti». Tra gli accordi già sottoscritti con i sindacati ci sono quelli che riguardano Iper: cassa integrazione per 254 addetti su 323 ad Arese, per 249 su 303 a Rozzano e per 60 e 38 (rispettivamente su 242 e 371 dipendenti) per quanto riguarda le sedi di via Traiano e via Palazzolo. Numeri importanti, insomma. Ai quali vanno sommate le 263.538 ore complessive di cassa integrazione sottoscritte da Carrefour come ipotesi massima per i punti vendita di Carugate, Assago, Paderno Dugnano, San Giuliano, Limbiate e Giussano. E anche Il Gigante ha chiesto e ottenuto l’accordo per l’attivazione degli ammortizzatori sociali in favore di 26 lavoratori.
Ma cosa è successo? Possibile che la grande corsa a riempire i frigoriferi non abbia lasciato benefici economici alla rete di grande distribuzione? In realtà diverse catene non hanno (ancora) avvertito la necessitò di ricorrere alla cassa integrazione. Il problema riguarda soprattutto gli ipermercati, quelli lontani dai centri urbani. «L’emergenza sanitaria ha colpito le grandi superfici di vendita alimentari, a causa delle restrizioni agli spostamenti e alla chiusura, fino a pochi giorni fa, dei centri commerciali — spiega Francesco Quattrone, direttore dell’area Area lavoro e sindacale di Federdistribuzione —. In questi mesi il fatturato degli ipermercati è diminuito mediamente del 20-30 per cento ed è stato inevitabile chiedere la cassa integrazione per la perdita di ore lavorate. Le grandi strutture di vendita hanno una organizzazione del lavoro fissata su consistenti volumi di clienti e di vendite, ed è stato impossibile, anche per le aziende di maggiori dimensioni, resistere a un calo del fatturato di queste proporzioni». Una spiegazione che coincide perfettamente con quella del sindacato: «Non tutti i punti vendita, non tutte le catene hanno registrato gli stessi risultati, anzi qualcuno è rimasto fortemente penalizzato proprio dalle regole del lockdown che impedivano di spostarsi al di fuori del proprio Comune di residenza», sottolinea anche Beretta della Filcams.
In effetti, nelle settimane di congelamento della vita sociale ed economica ha rilanciato soprattutto i negozi «sotto casa» e la rete di vendita di prossimità. E adesso, tra gli esiti di quella fase di alterazione della vita collettiva c’è anche il buco nel conto economico di tanti ipermercati sorti ai bordi delle tangenziali, delle provinciali e delle bretelle autostradali.
Le prospettive? «Le imprese che hanno una rete di vendita focalizzata sulle grandi superfici, pur sperando in una ripresa progressiva delle vendite, concluderanno il 2020 con gravi impatti economici — prevede Francesco Quattrone di Federdistribuzione — e ci vorranno ancora diverse settimane per ritornare a livelli di fatturato pre-crisi e con un ritmo di vendite in grado di sostenere l’aumento dei costi di prevenzione sanitaria». Uno sbocco più che probabile è quello dell’incremento delle vendite online e dei servizi di consegna a domicilio, balzati dall’1 al 5 per cento delle quote di mercato della grande distribuzione alimentare. Ma su questo il sindacato ha le idee chiare: «È il momento di un confronto con le aziende — spiega Marco Beretta — perché se il futuro del delivery deve assomigliare al modello Amazon, con condizioni di lavoro peggiorative per tutti, non siamo certo di fronte a un salto di qualità positivo».