Corriere della Sera (Milano)

Tenconi, curatrice dell’Hangar «Spesso ci sono opere che io stessa non capisco»

Roberta Tenconi «governa» l’Hangar Bicocca «Interpreto il mio mestiere in senso letterale: mi prendo cura dell’artista, mi metto al suo servizio»

- di Francesca Bonazzoli

All’Hangar Bicocca, che «governa» da curatrice, Roberta Tenconi ci è approdata passando per la Fondazione Trussardi, la Biennale di Berlino, quella di Venezia, e collaboraz­ioni con Vicente Todolì, Massimilia­no Gioni, Maurizio Cattelan, Ali Subotnick. Insomma nessuna dura gavetta da mozzo, ma un viaggio veloce, a vele spiegate, da capitano di una goletta.

Viene in mente quella pubblicità che dice: Ti piace vincere facile?

«Di certo lavorare in contesti privati che a Milano hanno un’anima rivolta al pubblico, come l’Hangar o la Fondazione Trussardi, è un privilegio. burocrazia e budget più alti. Ma in realtà ho lavorato anche con budget zero. Non ci sono progetti di serie a o b: si dà a tutti la medesima attenzione».

Come si diventa curatori d’arte?

«C’è stata una proliferaz­ione di scuole e master, ma posso dire che i grandi curatori vengono da mondi differenti da quelli dell’arte e spesso hanno una formazione da autodidatt­i. Ognuno può trovare la sua strada. Per me sono stati fondamenta­li una serie di incontri più o meno voluti, al posto giusto e al momento giusto. L’unico consiglio che posso dare è di guardare il più possibile mostre, musei, gallerie, e leggere libri e riviste d’arte».

Perché il mestiere del curatore è diventato così ambito dai giovani?

«Il mondo dell’arte contempora­nea, come quello degli chef, ha guadagnato copertine e una certa allure. Ma io la prendo in positivo: più che per l’aspetto mondano lo suggerirei perché è un lavoro bellissimo che ti mette in stretto contatto con gli artisti. Ci sono vari stili per farlo. Io lo interpreto in modo letterale: mi prendo cura dell’artista. A mio avviso il curatore è un facilitato­re, un compagno di viaggio. Non lo vedo come un mestiere creativo o autoriale, ma di servizio».

Da fuori, il mondo dell’arte contempora­nea appare autorefere­nziale e globaliz

zato. È davvero così? «Anche nel cinema c’è quello di Hollywood e quello indipenden­te. È una contraddiz­ione con cui convivo tutti i giorni: nell’arte si muovono grandissim­e ma anche piccoMeno lissime economie. Però, come dice Vicente Todolì, nell’avanguardi­a si è sempre da soli».

Qual è la sua idea dell’Hangar?

«Lo penso come una grande fucina. Per molti anni è stato un luogo di produzione industrial­e che ora è diventata culturale. Uno spazio che produce idee e pensieri».

Se la vita, come dice lei, non l’avesse portata sulla strada dell’arte con gli incontri giusti, che cosa avrebbe fatto?

«Alla maturità risposi: l’ingegnere. Poi mi sono appassiona­ta alla filosofia e oggi

vorrei fare l’antropolog­o».

Il suo luogo d’arte preferito in città?

«Casa Boschi Di Stefano. Ci porto ogni artista che passa da Milano perché è un gioiello che racconta la vita di due persone molto milanesi in un edificio costruito da Portaluppi».

Che cosa manca invece a Milano?

«Un museo di arte contempora­nea. Sarebbe importante perché le collezioni raccontano la storia e la personalit­à di una città. E poi qui ci sono tante opere prodotte e donate che non trovano una casa».

Si è fatta un’idea di che cosa sia l’arte e a cosa serva?

«Credo serva a vivere meglio, a farsi domande. Spesso ci sono opere che io stessa non capisco. Ma è il bello dell’arte, perché guarda avanti».

La solitudine dell’avanguardi­a

A volte ci sono opere che io stessa non capisco, non è questo il punto L’arte serve a vivere meglio, a farsi domande, a guardare avanti

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(foto Piaggesi/Fotogramma) Curiosa Roberta Tenconi davanti alle installazi­oni dell’artista gallese Cerith Wyn Evans. «Penso a questo posto come una fucina culturale», dice

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