Tenconi, curatrice dell’Hangar «Spesso ci sono opere che io stessa non capisco»
Roberta Tenconi «governa» l’Hangar Bicocca «Interpreto il mio mestiere in senso letterale: mi prendo cura dell’artista, mi metto al suo servizio»
All’Hangar Bicocca, che «governa» da curatrice, Roberta Tenconi ci è approdata passando per la Fondazione Trussardi, la Biennale di Berlino, quella di Venezia, e collaborazioni con Vicente Todolì, Massimiliano Gioni, Maurizio Cattelan, Ali Subotnick. Insomma nessuna dura gavetta da mozzo, ma un viaggio veloce, a vele spiegate, da capitano di una goletta.
Viene in mente quella pubblicità che dice: Ti piace vincere facile?
«Di certo lavorare in contesti privati che a Milano hanno un’anima rivolta al pubblico, come l’Hangar o la Fondazione Trussardi, è un privilegio. burocrazia e budget più alti. Ma in realtà ho lavorato anche con budget zero. Non ci sono progetti di serie a o b: si dà a tutti la medesima attenzione».
Come si diventa curatori d’arte?
«C’è stata una proliferazione di scuole e master, ma posso dire che i grandi curatori vengono da mondi differenti da quelli dell’arte e spesso hanno una formazione da autodidatti. Ognuno può trovare la sua strada. Per me sono stati fondamentali una serie di incontri più o meno voluti, al posto giusto e al momento giusto. L’unico consiglio che posso dare è di guardare il più possibile mostre, musei, gallerie, e leggere libri e riviste d’arte».
Perché il mestiere del curatore è diventato così ambito dai giovani?
«Il mondo dell’arte contemporanea, come quello degli chef, ha guadagnato copertine e una certa allure. Ma io la prendo in positivo: più che per l’aspetto mondano lo suggerirei perché è un lavoro bellissimo che ti mette in stretto contatto con gli artisti. Ci sono vari stili per farlo. Io lo interpreto in modo letterale: mi prendo cura dell’artista. A mio avviso il curatore è un facilitatore, un compagno di viaggio. Non lo vedo come un mestiere creativo o autoriale, ma di servizio».
Da fuori, il mondo dell’arte contemporanea appare autoreferenziale e globaliz
zato. È davvero così? «Anche nel cinema c’è quello di Hollywood e quello indipendente. È una contraddizione con cui convivo tutti i giorni: nell’arte si muovono grandissime ma anche piccoMeno lissime economie. Però, come dice Vicente Todolì, nell’avanguardia si è sempre da soli».
Qual è la sua idea dell’Hangar?
«Lo penso come una grande fucina. Per molti anni è stato un luogo di produzione industriale che ora è diventata culturale. Uno spazio che produce idee e pensieri».
Se la vita, come dice lei, non l’avesse portata sulla strada dell’arte con gli incontri giusti, che cosa avrebbe fatto?
«Alla maturità risposi: l’ingegnere. Poi mi sono appassionata alla filosofia e oggi
vorrei fare l’antropologo».
Il suo luogo d’arte preferito in città?
«Casa Boschi Di Stefano. Ci porto ogni artista che passa da Milano perché è un gioiello che racconta la vita di due persone molto milanesi in un edificio costruito da Portaluppi».
Che cosa manca invece a Milano?
«Un museo di arte contemporanea. Sarebbe importante perché le collezioni raccontano la storia e la personalità di una città. E poi qui ci sono tante opere prodotte e donate che non trovano una casa».
Si è fatta un’idea di che cosa sia l’arte e a cosa serva?
«Credo serva a vivere meglio, a farsi domande. Spesso ci sono opere che io stessa non capisco. Ma è il bello dell’arte, perché guarda avanti».
La solitudine dell’avanguardia
A volte ci sono opere che io stessa non capisco, non è questo il punto L’arte serve a vivere meglio, a farsi domande, a guardare avanti